La lingua di Dario Fo

Antonello Panero e Giuseppe Noto onorano la memoria del Premio Nobel ricollocandolo nell’universo da cui ha tratto ispirazione per creare un mito, tra lingue espressionistiche, gestualità suggestive e, soprattutto, dialogo con il pubblico.

di Giorgia Bollati  —  Esercitare la propria fantasia e stimolare l’esercizio di quella del pubblico: questo il primo obiettivo di Dario Fo, in base a quanto dichiarato alla consegna del Premio Nobel del 7 dicembre 1997. Intitolando il discorso “Contra joculatores obloquentes”, Fo si pone volontariamente nella schiera dei giullari: si tratta, infatti, di una legge del 1221, promulgata dall’Imperatore Federico II di Svevia, che garantiva l’impunità a chiunque avesse picchiato, bastonato e anche ucciso i giullari, coloro che diffamavano e insultavano; tuttavia, non essendo tale legge più in vigore, tiene a sottolineare l’artista, questa non minaccia in alcun modo la sua figura.

Proprio il legame tra l’arte di Fo e il ruolo svolto dagli joculatores medievali è il punto di partenza della lezione aperta tenutasi a Palazzo Nuovo il 13 dicembre 2016, organizzata da Giuseppe Noto, docente di filologia romanza e letteratura teatrale medievale presso l’Università degli Studi di Torino, che ha coinvolto il traduttore, attore e regista teatrale Antonello Panero per affrontare approfonditamente uno dei temi fondamentali e caratterizzanti del teatro del premio Nobel.

«Sfrutta il suo carisma, i suoi difetti fisici e la sua espressività corporale per creare un contatto con il pubblico, costruendo una figura capace di farsi comprendere da chiunque, anche grazie alla sua personale lingua: proprio come gli joculatores del Medioevo»

All’interno del grande bagaglio artistico di Dario Fo, per questo definito da Anna Barsotti “autattore, suggestive e vigorose risultano le espressionistiche tipologie linguistiche da lui usate, lingue non comprensibili nelle loro singole parole, ma in definitiva estremamente comunicative nel loro complesso, per il necessario e indispensabile contributo della gestualità.

Da un lato un iperdialetto che attraversa i dialetti galloitalici dell’Italia settentrionale con l’aggiunta di elementi veneziani e, dall’altro, il Gramelot (o Grammelot), che è, secondo la definizione di Gianfranco Folena, un informe borbottio semantizzato dal gesto teatrale, una lingua in cui è il gesto che dà significato alla parola inventata. Linguaggio con una denominazione dall’origine incerta (probabilmente dal francese antico corrispondente all’italiano “borbottare”, ma non si escludono derivazioni veneziane) è definito da Fo come tecnica onomatopeica per cui si ispira, oltre a Molière, a Ruzante, il quale si era costruito una lingua con termini provenienti da zone diverse e suoni scelti in base al criterio del fonosimbolismo. Tale modalità espressiva, tuttavia, secondo le parole di Folena, non riesce a vivere lontana dalla fisicità dell’attore, e, senza l’andatura un po’ da cavallo e un po’ da fenicottero di Dario Fo, non appare altrettanto suggestiva. Il grande autattore si richiama dichiaratamente a diversi modelli medievali, prende come punto di partenza gli joculatores, imita Pulcinella e le altre maschere della commedia dell’arte e si lascia trascinare dalla scrittura di Ruzante, ma poi stravolge completamente la realtà dei fatti mostrandosi per “il grande falsario” qual è.

La sua finalità, infatti, non è tanto storico-filologica, quanto politica: Fo, con il suo teatro, vuole creare una coscienza di classe, e prendere il giullare medievale come paladino della contro-cultura popolare, con un geniale travisamento della realtà dei fatti, è un modo per tracciare un’origine nobile della sua attività di giullare contemporaneo. Sfrutta il suo carisma, i suoi difetti fisici e la sua espressività corporale per creare un contatto con il pubblico, che tiene sempre vicino a sé, sul palco, costruendo una figura mitica e decisamente sopra le righe capace di farsi comprendere da chiunque, anche grazie alla sua personale lingua, proprio come gli joculatores del Medioevo. Antonello Panero lo inserisce in una linea percorsa da personaggi geniali quali Totò con i suoi diversi lazzi e l’Adenoid Hynkel di Charlie Chaplin che si esibiscono in grammelot memorabili, e dà dimostrazione della sua capacità attorale recitando davanti al pubblico la commedia dell’autore “Quasi per caso una donna: Elisabetta”, in cui un Fo travestito da fattucchiera riassumeva (e interpretava a modo suo) la vicenda di Amleto con un grammelot che è una sorta di dialetto veneto con termini lombardi.

Panero mostra come fondamentale principio di un bravo artista sia capire il suo uditorio, e in questo segue l’insegnamento di Fo, nonostante suo maestro spirituale sia più Gino Cervi, eliminando il sipario e la scenografia, per recitare alla stessa altezza del suo pubblico, seduto su una sedia. E insieme agli spettatori compirà un viaggio nella sua malattia, la sclerosi multipla, il 20 gennaio al Piccolo Teatro Comico di Torino nello spettacolo a cui è particolarmente affezionato “Un silenzio mai visto: ogni sclerosi è multipla”, per affrontare lucidamente, ma con tono ironico e comico, un argomento che lo tocca da vicino. Il teatro come necessità, come strada per la vita, con un esempio e uno sprone come solo l’energica e vitale figura di Dario Fo può essere.