L’Ivanov di Filippo Dini in bilico tra ironia e malinconia al Teatro Carignano

Al Teatro Carignano, un’interpretazione brillante quanto empatica per la regia di Dini, che incarna perfettamente lo spleen del capostipite di una dinastia di malinconici.

di Giorgia Bollati  –  Opera che era stata commissionata come commedia, Ivanov strappa sorrisi al pubblico per tutta la durata dello spettacolo, pur contenendo già il germe del 900, l’angoscia esistenziale che attanaglia i protagonisti delle opere di Svevo, Pirandello, Joyce e di tutti gli altri autori che, insieme a loro, si affacciano al nuovo secolo. Vergogna, noia, alcolismo sono le parole-ritornello di un mondo vuoto fatto di pettegolezzi, apparenza e interessi, regolato dal solo problema pratico della mancanza di denaro che stringe Nikolaj Alekseevič Ivanov in una morsa, sotto la pressione della ricca vicina Zinaida Savisna.

Filippo Dini, già registra, tra le altre opere, di Riccardo III (2006) e di La macchina infernale (2007), utilizza luci, musica e scenografia come strumenti espressivi dell’interiorità stessa del suo personaggio, a partire dal fastidioso e persistente verso delle cicale dell’apertura, per finire con il fischio gradualmente sempre più assordante che penetra nel suo cervello portandolo al tragico gesto finale. Il palcoscenico prende vita e assume il punto di vista prospettico di Ivanov: le pareti si stringono e si allargano intorno a lui, lo soffocano e lo fanno sentire piccolo e solo al centro della scena, tanto che non gli resta che cercare una via di fuga, un nascondiglio, un luogo in cui potersi sentire libero dai giudizi della società che lo circonda. Nei cambi di scena, degni di Michel Gondry, passando da una casa all’altra, una musica incalzante orchestra i movimenti delle maschere che portano divani, poltrone e tavolini, e la ventata di colore che illumina l’ambientazione.

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Colpisce la delicatezza con cui ogni attore maneggia il suo personaggio, mostrando quasi tenerezza nello spogliare gli animi di queste piccole marionette incastrate nei meccanismi societari che le costringono a seguire i dettami di un mondo vuoto e superficiale, ossessionato dal bisogno di ridere e scherzare, di essere sempre brillanti per fingere di non vedere le ombre cupe che calano sulla vita quotidiana. Momenti chiave che arricchiscono l’interpretazione sono i piccoli dettagli, gli attimi in cui si vede un personaggio che crede di non essere osservato e compie gesti scorretti o imbarazzanti: regina del soffocamento della spontaneità dietro una patina di apparenza è Marta Babakina (una frizzantissima Ilaria Falini), che versa il disgustoso tè dei Lebedev in un vaso o sfrutta la distrazione generale per tracannare Vodka. Risultano controcorrente da un lato Ivanov e dall’altro l’odioso e giovane medico L’vov, interpretato da Ivan Zerbinati (al massimo nei panni del servo dei Lebedev), ossessionato dall’onestà e dalla coerenza, tanto da perdere qualsiasi parvenza di umanità e diventando il persecutore primo del protagonista, quasi una macchina inquisitrice che ticchetta insistentemente e consuma piano piano Nikolaj.

La magistrale esecuzione di Filippo Dini rende Ivanov capace di ridere della sua stessa malinconia, lo eleva a un grado di autocoscienza tale da non perdere autoironia nemmeno nei momenti di deriva nella più stringente malinconia, ma ne mostra anche i lati oscuri e irrazionali degli attacchi isterici, quando chiunque sia “altro” diventa unico possibile bersaglio della rabbia e dell’insofferenza del suo animo. Circondato da Pavel Lebedev, un preciso quanto empatico Antonio Zavatteri, e dall’ingenuo Conte Sabelskij, interpretato da Nicola Pannelli, Ivanov si crogiola nella sua inattività, nel suo spleen, per essere continuamente stimolato e consigliato da Michail Borkin, un perfettamente diabolico Fulvio Pepe. Dall’altra parte c’è la Anna Petrovna di Sara Bertelà, una figura angelica che si oppone per contrasto al mondo che la circonda e che la regia di Dini non manca di esaltare come visione celestiale grazie ai costumi e all’utilizzo delle luci. Una messa in scena “sentita”, fortemente empatica, senza essere mai cedevole, costruita da personalità forti che non si risparmiano, tutto in un equilibrio delicato ma, al contempo, brillante.