La serie HBO ideata da Lisa Joy e dal minore (e forse più talentuoso) dei fratelli Nolan, appena rinnovata per una seconda stagione, si dimostra un’opera ambiziosa e ben più inquietante del film originale di Michael Crichton dal quale è tratta. Ma sono proprio le enormi aspettative e il suo straordinario potenziale a far sì che la serie, almeno in parte, deluda…
di Giulia Scabin – Lo sceriffo che recluta uomini coraggiosi per una spedizione sulle montagne, il saloon dove si bara a carte, le prostitute al bancone in cerca di clienti, cowboy che citano Shakespeare, un piano che strimpella i Radiohead e i Soundgarden: non è il vecchio west, ma un parco divertimenti estremamente sofisticato che ne replica alla perfezione gli archetipi e le trame, abitato da androidi identici agli esseri umani, programmati per avere un determinato carattere, dei determinati ricordi, e seguire in loop degli archi narrativi con i quali i visitatori possono interagire nel modo che preferiscono. Perché a Westworld, “dove tutto è concesso”, proprio come in un videogioco open world, è l’essere umano a comandare, e a dare sfogo al lato più oscuro e violento del proprio essere. Tanto, finito lo spettacolo, i robot vengono resettati per il giorno dopo, e il sangue lavato via dalle strade.
La mente alla base di tutto questo è Ford, una sorta di Walt Disney dell’orrore interpretato da un (neanche a dirlo) eccezionale ed inquietantissimo Anthony Hopkins, che ha progettato e costruito il parco e i suoi abitanti assieme ad Arnold, personaggio misteriosamente scomparso poco dopo la creazione del parco di cui di fatto non si sa nulla, se non che si trovasse moralmente in disaccordo con la funzione del parco e lo sfruttamento delle sue creazioni. Ma Arnold ha lasciato in eredità alle sue macchine delle risorse che cambieranno le carte in gioco.
La HBO ha chiaramente e poco velatamente tentato di replicare con Westworld quel successo grandioso e assoluto raggiunto con Game of Thrones: se infatti una serie di un genere tradizionalmente di nicchia come il fantasy può diventare la serie più seguita e chiacchierata a livello mondiale, perché non provare con una serie sci-fi?
E gli ingredienti ci sono tutti: una trama avvincente e ben costruita, raccontata con una regia impeccabile, un cast fenomenale (sul quale spiccano insieme ad Hopkins Thandie Newton e Evan Rachel Wood) ad interpretare personaggi altrettanto accattivanti e, soprattutto, un’idea originale, invitante e coinvolgente. Il tutto mescolato in un atmosfera cupa, inquietante ed irresistibile.
Ma nonostante tutto, la serie non è (ancora) riuscita nel suo intento. Questo perché, prima di tutto, Westworld non è Game of Thrones. Perché per quanto la serie dei Sette Regni possa avere trame e personaggi complicati, Westworld, con la sua qualità volutamente labirintica, raggiunge un livello di complessità che non si era mai visto. E non si tratta di quella complessità improvvisata sullo stampo di Lost, dove una trama intricatissima viene delineata di volta in volta senza sapere bene dove andare a parare: la serie di Nolan e Joy è un organismo perfettamente progettato e curato nei minimi dettagli, dove nulla è lasciato al caso e tutto tende ad un significato. È una serie lenta, riflessiva e sicuramente non facile, e questo ha fatto sì che Westworld non potesse uscire completamente dal genere delle serie di nicchia.
«Per quanto avvincente e soddisfacente possa essere il finale di stagione, con le sue rivelazioni e i suoi cambi di rotta, rimane la spiacevole impressione che i tempi siano stati sbagliati»
E se questo elemento potrebbe essere visto sotto un certo punto di vista come un superamento delle serie mainstream, rimane comunque un altro aspetto che frena la riuscita della serie. Perché per quanto avvincente e soddisfacente possa essere il finale di stagione, con le sue rivelazioni e i suoi cambi di rotta, rimane la spiacevole impressione che i tempi siano stati sbagliati.
I due grandi filoni narrativi che costituiscono la struttura della trama di Westworld sono la lotta disperata verso la presa di coscienza di Dolores (l’androide interpretata da Evan Rachel Wood), e il piano di Ford, tenuto nascosto allo spettatore fino all’ultima puntata. Ma i tempi dedicati alle due trame principali e alle numerose trame secondarie, una volta che lo spettatore si rende conto dell’unica grande narrazione che le comprende tutte, sono strani e “sbagliati”, piegati alla realizzazione di colpi di scena e alla riuscita di quell’ultima puntata che finalmente illumina la grande struttura della trama rimasta in ombra fino ad allora.
Per garantire la sorpresa finale, la narrazione è costretta a concentrarsi su trame secondarie e sterili. Certo, il risultato è innegabilmente splendido, ma rimane un fastidioso retrogusto nell’aver guardato dieci ore di quello che è di fatto un prologo. Ma la serie rimane, senza dubbio, una perla con diversi aspetti notevoli.
Non si tratta infatti semplicemente di un racconto sull’intelligenza artificiale: è un racconto sulla nostra percezione di realtà e finzione, di narrazione e storia, un racconto sull’incredibile quanto assurda capacità dell’uomo di entrare in empatia con storie e sentimenti che sa non essere reali. Ed è proprio questo il bello del gioco , ed è per questo che continuiamo a giocare, spingendoci oltre ogni limite etico. Questa affascinante e costante dissonanza che Westworld riesce a creare e mantenere durante tutte le sue dieci puntate è qualcosa che nessuna altra serie che io abbia mai guardato è riuscita a mettere in scena.
La serie HBO è inoltre anche una grande tesi sul comportamento umano: cosa saremmo in grado di fare se non fossimo costretti da freni morali? Se nel parco di Westworld anche uccidere e stuprare è lecito, perché è soltanto un gioco, la moralità diventa un elemento superfluo. Ed è uno dei quesiti al centro dalla serie: questo a cosa può portarci? A scoprire risorse del nostro carattere che non sapevamo di possedere o a trasformarci in mostri disumani?
A Jonathan Nolan e Lisa Joy non interessa la lotta tra umani e robot, lo scontro tra il creatore e la sua creatura, quanto l’esplorazione dei confini dell’auto-consapevolezza, umana e non-umana. E non c’è nulla di banale qui.
Ma ora che Ford ha finito di tessere le fila della sua storia, e ha lasciato la postazione di regista, chi dirigerà le scene? Ora che il prologo è stato scritto, la seconda stagione ha tutte le carte in regola per essere un capolavoro. Che fosse tutto parte di un disegno più grande?