Una vita intera spesa in prima linea, ma sempre con gli occhi lucidi dello spettatore. Sabato 10 dicembre, Tony Allen approda in Italia, a Torino, nell’orbita di Jazz:re:found Festival, un’occasione unica per incontrare uno dei più grandi batteristi di tutti i tempi.
I governi militari, l’instabilità politica, il mercato del petrolio e la disparità sociale. La Nigeria, negli anni 70 come oggi, non era un Paese facile in cui vivere. Ma è sempre in questi contesti che la musica ha trovato terreno fertile. Tutte le rivolte hanno avuto una propria colonna sonora ed è proprio in questo periodo, segnato dalla dittatura militare e da una sanguinosa repressione, che nasce l’afrobeat, commistione di generi che mescola i ritmi della giungla, il funk e il soul.
Il volto di questa corrente musicale è Fela Kuti, non un semplice e talentuoso musicista, ma soprattutto un militante politico. Fela credeva nel Panafricanismo, nella Repubblica di Kalakuta (una sorta di comune che ruotava intorno alla sua figura) e in un’Africa diversa.
Dietro al suo volto, a quei segni tribali di vernice bianca sulle guance, si nascondeva però un altro rivoluzionario. Un ribelle che non vedeva la musica come un’arma, ma la sentiva come un flusso dinamico, dettato da un ritmo innovativo e senza precedenti. Tony Allen, oggi 76enne, è stato il vero fulcro dell’esperienza musicale più significativa di quel periodo, gli Africa 70 (durata 15 anni, sotto nomi diversi), e la vita di Tony Allen non è certo stata una vita qualsiasi, perchè Tony Allen non è un batterista qualsiasi. Tony Allen è il ritmo, Tony Allen è l’afrobeat.
Se infatti Fela Kuti sarebbe diventato il simbolo che voleva anche senza Tony Allen, l’afrobeat non sarebbe mai diventato il fenomeno che oggi conosciamo. Forse non sarebbe mai nato.
“Se sono dell’umore giusto, potresti avere l’impressione di ascoltare sei batteristi contemporaneamente, o forse anche 100”, ironizzava Allen in merito alle sue immense doti artistiche.
La politica però ha diviso il cammino di Allen e Fela Kuti: in diverse interviste il batterista ha manifestato il suo distacco dalle posizioni ideologiche di Fela, condividendone in parte il contenuto, ma non certo il metodo. Fela Kuti era un militante, Tony Allen un musicista.
Allen ha saputo creare e cavalcare il fenomeno afrobeat in quel meraviglioso calderone musicale che furono gli anni 70, ma a differenza di altri, ha saputo ritagliarsi un proprio spazio, riciclandosi in maniera intelligente.
Fino ad oggi.
Avrebbe potuto diventare una simpatica macchietta, riproponendo per una vita intera (e campandoci) tutta l’esperienza maturata con Fela Kuti, musicalmente e spiritualmente parlando. Un’esperienza fondamentale, non c’è dubbio, ma alla quale hanno badato più i figli del compianto musicista africano. Allen non è mai voluto diventare un’icona pop.
Il batterista di Lagos ha voluto mettere il ritmo al centro della propria vita, diventando icona per tutti i percussionisti del mondo e non solo.
“Forse è il più grande batterista mai vissuto” (Brian Eno)
Uno dei migliori pregi di Tony Allen è stato quello di stare al passo con i tempi. E sicuramente la sua vita a Parigi, nel cuore dell’Europa, lo ha aiutato molto in questo percorso di crescita musicale. Perchè il suo percorso non si è fermato in gioventù; al contrario, è proprio negli ultimi decenni che Allen è entrato in mondi inaspettati, ma in qualche modo naturali. Inevitabile che la sua vita non si incontrasse con quella di Damon Albarn, voce dei Blur e dei Gorillaz, da sempre affascinato dai rit(m)i africani.
Insieme hanno firmato diversi progetti, sempre mettendo sullo stesso palco artisti di livello internazionale: prima il disco “The Good, The Bad and The Queen”, prodotto da Danger Mouse e registrato anche con l’ex bassista dei Clash Paul Simonon e con il cantante dei Verve Simon Tong, poi l’altro supergruppo insieme a Flea dei Red Hot Chili Peppers e alla cantante Fatoumata Diawara, esplicitato dal disco “Rocket Juice & The Moon”. In mezzo tante altre collaborazioni, tra le quali spiccano Charlotte Gainsbourg (in due tracce dell’album “5:55″) e con gli Air (in “Once Upon a Time”), fino all’ultimo disco del 2014, “Film of Life” (dove spunta di nuovo Albarn).
Il film di una vita appunto, una vita che in pochi sarebbero riusciti a raccontare con questo ritmo.