La prima parte del reportage targato OUTsiders webzine sulla 34esima edizione del TFF: al di là dei premi ufficiali, caliamo il nostro poker vincente.
di Luca M. Richiardi – Abbiamo visto per voi quasi quaranta pellicole in questi otto intensi giorni di Festival. In mezzo a questo pandemonio di immagini, storie e suoni, quattro film in particolare ci hanno particolarmente convinto. Ne vogliamo parlare subito, il giorno dopo la fine della rassegna; a caldo, finché possiamo trattenere le emozioni che hanno generato in noi.
Juan Zeng Zhe / The Donor di Qiwu Zang (Cina, 2016)
La voragine economica e sociale che divide il popolo cinese è al centro di questa piccola storia drammatica, film d’esordio di Qiwu Zang, già assistente del più noto Zhang Yimou (regista ad esempio de “La foresta dei pugnali volanti”). Una voragine che permette soprusi estremi condotti con naturalezza sconcertante, che vengono semplicemente accettati dalle classi più misere – proletarie in un senso tradizionale, ottocentesco del termine. Yang Ba (Ni Dahong) è un meccanico di mezza età, con un misero laboratorio, una moglie insoddisfatta, un figlio mediocre. Da uomo semplice sopporta stoicamente, anzi stolidamente, come un seguace del loyolano motto “perinde ac cadaver”, la propria condizione di miseria assoluta, ritagliandosi spazi di felicità “quando mia moglie e mio figlio non mi danno problemi” – come confessa al suo nuovo ‘fratello’ Li Daguo (Qi Dao). Li è l’immagine del benessere e della ricchezza, la faccia più affascinante e piacevole del capitalismo. I suoi modi rispettosi, familiari, affascinanti, la sua ricchezza estrema ma non arrogante lo rendono una presenza piacevole, un volto amico. Eppure egli è il Mefistofele del nostro protagonista, pronto a offrirgli qualsiasi cifra, con tutte le promesse di serenità economica e familiare associate, per avere il suo rene e poi anche quello di suo figlio: il tutto nel disperato tentativo di prolungare la vita all’adorata sorella del businessman. Questa piccola e tragica vicenda, che nella regia misurata e rispettosa di Qiwu Zang trova la propria dimensione ideale – sfuggendo ad eccessi drammatici e istrionici – è valorizzata dall’eccellente interpretazione di Ni Dahong, dal volto marmoreo alla Buster Keaton, e da un incredibile lavoro di sound design, minimale ed estremamente efficace. Un piccolo gioiello già premiato al festival Sud Coreano di Busan e che ha meritato anche il premio per miglior film e miglior sceneggiatura – nel secondo caso la giuria ha voluto sottolineare “come la tradizione del Neorealismo italiano sia ancora viva in angoli remoti del globo”.
Goksung / The Wailing di Na Hong-jin (Corea del Sud, 2016)
«Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!
Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho»
Vangelo secondo Luca
Goksung è un piccolo paese nella regione montuosa della Corea del Sud. Un uomo sta pescando pacificamente sulla riva del fiume. E’ uno straniero (Kunimura Jun), un anziano e misterioso giapponese che si è appena trasferito e di cui nessuno in città sa molto. Ma la sua presenza diviene presto avvolta da sussurri e dicerie, che la legano a una serie di tremende violenze domestiche, omicidi e incendi troppo efferati per essere spiegati con la logica: tanto estremi da essere sospette possessioni di spiriti maligni. E tra visioni demoniache nella foresta, guide spettrali e sedicenti sciamani, il lavoro di investigazione del poliziotto Jong-goo (Kwak Do-won) e dei suoi collaboratori si fa sempre più difficile e confuso, folle, frenetico, e infine disperato, quando la figlia di Jong-goo viene a sua volta posseduta da questo male inspiegabile che la rende famelica e violenta. The Wailing è un ottimo film di genere, un thriller che fa impallidire le produzioni americane contemporanee nello stesso ambito. Misterioso, tragico, buffo, epico, sorprendente: è una esperienza cinematografica totale di quelle a cui la cinematografia sud-coreana ci ha ormai abituati (basti pensare a film che hanno valicato ogni confine culturale e geografico come Old-boy di Park Chan-wook, Snowpiercer di Bong Joon-ho, Pieta di Kim Ki-duk, I saw the devil di Kim Jee-woon e infine The Chaser, del medesimo regista di questo film). Di una ricchezza visiva impressionante, con una colonna sonora e un sound-design maestosi, Goksung è cinema di intrattenimento della forma più alta e merita indubbiamente il successo di pubblico e critica che sta ricevendo.
Free Fire di Ben Wheatley (Regno Unito, 2016)
Un gruppo di ribelli irlandesi. Un altro gruppo di trafficanti armi. Una fabbrica abbandonata. Centinaia di armi e proiettili a disposizione. Un set-up Tarantiniano (Reservoir Dogs?), una produzione targata Martin Scorsese e affidata ad uno dei giovani registi più talentuosi del momento, il britannico Ben Wheatley che dopo film del livello di Kill List, A field in England e l’incompreso High Rise non merita altro che tutta la nostra fiducia e attenzione. Probabilmente il film a più alto tasso di intrattenimento degli ultimi anni, che riesce magistralmente a schivare le riduzioni a mero progetto-clone di Tarantino, si innalza ben sopra la mediocrità di un Guy Ritchie, e colpisce invece dritto nel segno, diventando ciò che fin dall’inizio ci prometteva: una commedia surreale nella quale volano tanto i proiettili quanto le frecciatine sarcastiche, senza che un aspetto finisca per divorare l’altro. Nella sala del cinema gremita i fischi delle pallottole sembrano mancare a malapena i crani degli spettatori, e anche i momenti più grotteschi e divertenti non sciolgono la tensione di fondo: noi siamo lì, con loro, i nostri protagonisti – presentati rapidamente quanto la situazione contenuta permette e astutamente quanto è necessario per renderceli amabili – e talvolta anche noi ci dimentichiamo da quale parte stiamo. La regia è cinetica e sa accelerare e frenare quando necessario; le musiche sono travolgenti. Tra le interpretazioni emergono quelle dell’affascinante Cillian Murphy, il rilassato professionista Armie Hammer e Sharlto Copley, che “non si è mai ripreso dall’essere stato erroneamente ritenuto un bambino prodigio”. I diritti per il film sono stati comprati dalla torinese Movies Inspired e potremo quindi rivederlo presto in sala.
Antiporno di Sion Sono (Giappone, 2016)
Il tour de force produttivo dell’infaticabile Sion Sono (autore nel 2015 di ben sette pellicole, di cui tre presentate alla scorsa edizione del Festival) è decisamente rallentato quest’anno: in compenso con Antiporno troviamo una versione assai più concentrata, puntuale e organica del cinema eclettico e anarchico del regista giapponese. D’altronde il film nasce da una iniziativa della storica casa di produzione Nikkatsu che con questo film (e altri quattro) intende omaggiare lo storico (e misconosciuto all’estero) genere del roman porno (o pinku eiga), nato nel 1971. Fino al 1988 i roman porno, che mischiavano con diversi livelli di qualità e sensibilità la pornografia a storie di romanticismo e violenza, sono stati prodotti in gran numero, prima del fallimento della Nikkatsu all’inizio degli anni novanta. Si tratta di un genere per sua natura controverso, spesso intriso di perversione e misoginia, e con questo film Sion Sono non si sottrae certamente dall’affrontare le questioni più spinose che emergono dalla sua rivisitazione contemporanea. Kyoko (Ami Tomite) è al centro delle vicende del film, se di vicende si tratta. Sembra una eccentrica pittrice e autrice, con una bizzarra visione della sessualità, desiderosa di spingersi nell’industria del porno. E invece no. Con un gioco di matrioske russe e realtà che si sovrappongono ci troviamo in un film all’interno del film, dove i ruoli si ribaltano, e la sua docile assistente Noriko (Mariko Tsutsui) si rivela una odiosa vessatrice. E da qui ci spostiamo in questo tunnel vorticoso e colorato, sfrecciando tra ricordi del passato di Kyoko, la sua prima esperienza sessuale, entrando dietro le quinte della sua mente instabile. Antiporno è un film-esperienza che talvolta inebria e ci porta a vette surreali di lirismo, talvolta soffoca e ci fa sperimentare con estrema efficacia i traumi di una psiche, quella di Kyoko, come emblema di una situazione più generale, di chi ha vissuto all’estremo le contraddizioni della propria condizione: di donna, di giapponese, di attrice porno.
Qui l’elenco di tutti i film premiati ufficialmente dal Torino Film Festival.