[REPORT] L’arsenale di suoni e colori degli Jaga Jazzist al Teatro Superga

Il collettivo di Tønsberg porta in giro per ben sei date la loro ultima fatica “Starfire” e passa anche per Nichelino, nella cintura torinese. Appuntamento imperdibile per chi ama il progressive contemporaneo, e non solo. Perché “tutti quanti voglion far il jaga jazz” (ma come loro nessuno mai).

Gerri J. Iuvara  –  In un lontano novembre di undici anni fa preparavo me stesso per l’evento che avrebbe cambiato negli anni a seguire il mio concetto di “live” e di “musica dal vivo”. Ero intento a spulciare la lunga lista degli artisti che avrei ascoltato da lì a un mese a Camber Sands, Inghilterra, alla tre giorni di musica proposta dall’ATP (All Tomorrow Party) che in quell’edizione era curata dai The Mars Volta. Essa comprendeva gli artisti associati alla label di cui erano i direttore artistico Omar Rodriguez Lopez (la ei fu Gold Standard Lab) e da band che il gruppo apprezzava particolarmente. Dicevo che il mese prima di partire cercai di ascoltare più musica possibile così da arrivare preparato all’evento. Tra le oltre trenta band in cartellone feci una cernita essenziale che comprendeva almeno quattro gruppi sconosciuti che dovevo assolutamente ascoltare dal vivo: gli americani Hella e Battles, gli svedesi Dungen e i norvegesi Jaga Jazzist – tra gli altri. 

Ho saputo invece che per i torinesi la data dell’incontro coi Jaga porta in calce lo stesso anno, con la differenza che a sostituire le albioniche location c’era lo sPAZIO 211. Lo ricorderà a fine concerto un emozionato quanto felice Martin Horntveth, leader e batterista del gruppo. Poco male, cambiano le location ma il succo rimane lo stesso. Oltre dieci anni dopo ci ritroviamo e come vecchi amici che si rivendono dopo tanto tempo, ci sediamo di fronte e ci raccontiamo quello che c’è capitato in questi anni. Chiudiamo però l’altarino dei ricordi, che ho aperto solo per far capire a chi legge l’emozione che ho provato nel sapere di poter rivedere, dopo un decennio, una piccola ma numerosa realtà musicale come quella dell’ensemble scandinava in questione.

I primi a esibirsi e a scaldare gli animi, nella moderna location del Teatro Superga, sono gli Aiming For Enrike. Si tratta di un duo math-rock cresciuto a pane e Battles, a caffeina e Adebisi Shank.
Gli A.F.E. sono Tobias Ørnes Andersen e Simen Følstad Nilsen, rispettivamente alla batteria e alla chitarra elettrica fortemente effettata. I due suonano ai piedi del grande palco del teatro, tra due riflettori e una nube bianca che li nasconde ed esalta allo stesso tempo. Il set è pura adrenalina e dura circa una mezzora, con alcune delle canzoni del loro ultimo album: Segway Nation. Ottima apertura, i due dal vivo sono davvero esaltanti, sembrano una lunga session tra Steiner e Konopka dei già citati Battles. Chiuso il set, gli Aiming salutano e cominciano a smontare i propri strumenti, lasciando solo intravedere quello che sul palco si sarebbe a breve materializzato.

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Per uno come me – prolisso e assuefatto agli aggettivi – risulta difficile descrivere al meglio l’esibizione dei Jaga Jazzist. Provando a essere schematici posso suddividere l’esibizione prima dal lato strettamente musicale e infine descrivendo il colpo d’occhio e gli effetti visivi ricreati su quell’ampio palco. I Jaga sono al sesto album in studio, il suono della band si è evoluto rispetto al gruppo visto anni fa: rimane unico e riconoscibile ma il modo di ricrearlo si è fatto più sintetico.

«Ci troviamo di fronte ad un universo di colori: si punta a coinvolgere e stupire lo spettatore con un vasto arsenale composto da una decina di fari a luce cangiante e oltre una trentina di aste a led»

Ascoltando Starfire e vedendolo poi trasposto dal vivo si colgono le differenze con i precedenti Lp. Meno fiati ma anche usati in maniera diversa. Chitarre ridotte all’osso sostituite da maggiore programmazione e un più massiccio uso di sintetizzatori. Tolto però il discorso “approccio strumentale, il concetto musicale rimane inalterato. Le grandi suite, i repentini cambi di ritmo e le sfuriate quasi orchestrali rimangono e vengono esaltate dagli effetti visivi posti sul palco. Per quel che riguarda l’impatto visivo, dicevamo, è cambiato tutto. Dieci anni fa si presentavano ordinati e numerosi sul palco, desiderosi di voler incantare solo tramite la grazia delle note prodotte. Ora invece ci troviamo di fronte ad un universo di colori, si punta a coinvolgere e stupire lo spettatore con un vasto arsenale composto da una decina di fari a luce cangiante e oltre una trentina di aste a led, sparse tra i componenti del gruppo avvolto dalle tenebre, con sullo sfondo una psichedelica immagine in bianco e nero. Tutto un altro effetto insomma.

Tornando alla cronaca della serata: praticamente tutte le canzoni del nuovo album sono state presentate, con la title track fatta come encore e qualche perla, tratta da vecchi album come tre tracce dal precedente disco One armed bandit e altre due canzoni tratte rispettivamente da The Stix e da What we must. Come da programma a condurre l’orchestra e a farsi portavoce del gruppo ci pensa il già citato Martin, che spesso presenta i pezzi e i suoi esecutori o anche solo ringraziando i presenti.

Ripeto, risulta difficile descrivere appieno la resa dello show, anche video o fotocamere avrebbero grossi problemi a rendere giustizia a forse una delle più belle esibizioni viste dal sottoscritto qui a Torino. Chi s’è goduto questa esperienza l’altra sera sa’ di cosa parlo, gli altri dovranno crederci sulla parola.