American Pastoral: il sogno americano ridotto in cenere

Per la sua prima prova da regista Ewan McGregor non poteva scegliere soggetto più insidioso con l’adattamento di uno dei romanzi cardine del Novecento. L’opera letteraria è maneggiata con cura, tanto da ottenere il benestare dello stesso autore. Che il film sull’altra faccia dell’America possa servire da incentivo per assegnare a Philip Roth quel Nobel che secondo alcuni dovrebbe avere già in tasca da un po’? 

di Jacopo Lanotte – “La vita è solo un breve periodo di tempo nel quale sei vivo” recita la piccola Merry quando ancora nulla si sarebbe potuto dire sul suo conto se non che fosse la figlia perfetta per una famiglia, frutto di una generazione che ce l’ha fatta. Lui è un atleta degli sport nazionali: football, baseball e basket. Sua moglie, appena uscita vincitrice come Miss America, dopo feste luccicanti nel miraggio di Atlantic City. Un trittico impeccabile, retto sugli equilibri della speranza, di quell’”American Dream”, che poi verrà cancellato dai muri delle vecchie fabbriche paterne.

Un’epopea del trauma generazionale: quello che ha spaccato in due gli Stati Uniti D’America dopo i gloriosi Anni 50.

Siamo di fronte a Seymour Levov, figlio di un fabbricante di guanti per l’industria americana, nata dalle ceneri di quella che fu negli anni 40 la “Great Depression”. Lou Levov (suo padre) conobbe la fame, l’inedia di coloro che insieme a lui partirono per cercare fortuna ad Ovest, scappando dalla povertà che falciava un popolo, quello ebraico, sul vecchio continente. I ghetti, quando lo svedese e Zuckerman (personaggio fittizio, voce dello scrittore, per altro anche lui ebreo, Philip Roth) si conoscono bambini, non esistono più, anche se le disparità sociali, la segregazione latente, continua a corrodere i rapporti persino sulla East Coast benestante.

Un conflitto irreparabile che si consuma in sordina durante tutta la narrazione di quella che si presenta, ancora oggi, come l’elegia compianta di un paese dilaniato nel profondo: la grande “Pastorale Americana”. Che poi scopriamo essere nient’altro che un’etichetta ironicamente geniale e spietata riferita al Thanksgiving Day. Il giorno in cui i cittadini statunitensi si raccolgono sotto un unico apparente simbolo consolatorio. Non importa a quale setta religiosa (e in quanto a ciò gli americani sono maestri nel crearne) tu faccia parte, o se la tua pelle sia diversa da quella del tuo vicino nel cesso di qualche motel. Per quelle ventiquattrore, ci dice Roth, tutti coloro che diffidavano l’uno dell’altro sino al giorno prima, diventano teneri agnellini mangia-tacchino.

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Siamo nel 1998, quando l’autore di Lamento di Portnoy”, che gli conferì fama internazionale nel 1969, si ferma anziano, a fine carriera, a riflettere su quello che è stato il suo paese durante il XX secolo. Come non presentare quindi i conflitti che lo hanno animato, se non riportandoli a stretto contatto con quel particolare rapporto umano su cui gli U.S.A. hanno giocato le loro carte vincenti: la famiglia. Quel nucleo perfetto che splendidamente Seymour, Dawn e Marry incarnano… ma aspettate di vedere cosa accadrà quando i suoi pilastri, apparentemente saldi, verranno minati alla base. La guerra in Vietnam, le contestazioni giovanili feroci (che ispirarono i moti rivoluzionari europei poco successivi) e nel caso del romanzo la cara e dolce Marry “la terrorista di Old Rimorock, che si troverà coinvolta in tutto ciò a cominciare della traumatica visione in TV del suicidio stoico di Thich Quang Duc (datosi fuoco per protestare contro l’avvio del conflitto vietnamita nel 1963).

Una mattina come tante altre ad Old Rimrock (vicino a Newark nel New Jersey) il gestore dell’unico emporio del paese issa il vessillo a stelle e strisce. Qualche attimo di esitazione e BOOM! Appena l’uomo rientra, il piccolo negozio salta in aria. Senza troppe invenzioni pretenziose l’episodio culmina al centro della vicenda e figura, nella versione trasposta su pellicola da un uomo che di regia non si era mai occupato, sulla locandina da poco in circolazione recante il titolo non tradotto “American Pastoral”Sì perché se finora abbiamo sorvolato su questo aspetto, l’interesse per quella storia-summa di cui si parlava poc’anzi, a quasi vent’anni di distanza, è spuntato vivo e fecondo tra i pensieri dello scozzese e pluripremiato attore (si ricordi la celebre interpretazione in “Trainspotting” nel 1996 di Mark Renton, colui che “scelse di non scegliere la vita”) Ewan McGregor che oggi la riassorbe e la proietta sul grande schermo.

Siamo di fronte al suo debutto come “director” e subito si misura con uno dei generi che criticamente possono destare le insidie peggiori: l’adattamento di un romanzo (e come avete potuto notare, non stiamo parlando dell’ultimo giallo in edizione tascabile) al cinema. L’ex-attore di Guerre Stellari ha costruito una storia fedele all’originale, ma come già si accennava leggermente prevedibile. Accompagna lo spettatore con passo saldo al terreno narrativo, permettendosi però anche qualche taglio alla trama. Le parti trasposte si scollano così dal sostrato dettagliatamente sfaccettato che il libro descrive, in particolar modo non viene quasi accennato il conflitto religioso tra Dawn (la giovane vincitrice di Miss America; fantastica “doll” che decide di sposare il più bello, atletico e affermato ragazzo in circolazione, “lo Svedese”), la sua famiglia di origini irlandesi-cristiane e quella dell’aspirante sposo, Seymour di tradizione ebraica.

Un conflitto che McGregor risolve con il colloquio tra Dawn e Lou Levov sotto toni ironici e notevolmente degradati rispetto al tenore sostenuto sulle pagine di Roth. D’altronde Philip era irlandese anche lui: la questione lo coinvolgeva personalmente. Un dettaglio che purtroppo non si ripercuote più nella sceneggiatura affidata da McGregor a John Romano. Esso risulta infatti di cruciale importanza proprio quando le cose dall’attentato terroristico cominciano a crollare. Marry piazza la dinamite nell’emporio, scappa dalla sua psicanalista e da qui prende o dovremmo dire perde la strada, finendo a Chicago stuprata. Il sogno americano viene così disgregandosi pezzo dopo pezzo, dall’esterno e dall’interno. Perché se Marry è sì vittima di un decennio terribile, alimentato dalla minaccia della guerra fredda, è anche semplicemente una figlia che odia una madre troppo bella e s’innamora del proprio padre (memorabile la scena in cui Merry chiede allo “svedese” di baciarla sulla bocca, un giorno durante la sua infanzia). Già perché se Seymour vi sembrava un grande eroe si dimostra alla fine la vittima più colpita dal dramma inscenato. E ciò si origina anche dal conflitto religioso: Dawn impazzita dal dolore per la fuga della figlia e le pressioni da parte della polizia che sospetta di lei, rinfaccerà al marito la sua fede nell’Ebraismo. Una questione quindi fondamentale che il film non riporta se non per quel breve dialogo sopracitato (l’introduzione di Dawn al padre di Seymour).

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Si può comunque comprendere la difficoltà di tradurre in un formato come quello cinematografico un libro di più di 500 pagine che attraversa metà del XX secolo e che giunge a destituire in maniera drammatica tutti i fantasmi con cui la nazione americana ha illuso i propri cittadini.

La scelta di McGregor appare comunque un buon compromesso. Non si lancia nella sperimentazione, richiamandosi ad una regia classica nostalgica degli anni 50 Hollywoodiani. Un cinema fatto di scarti temporali brevi, scene lampo e suspence palpitante (notevole la scena dell’esplosione dell’emporio), accelerazioni e flash-back illuminanti che donano alla storia di Roth una poeticità più pubblica, più diretta. Effettivamente, la via per la quale l’autore del romanzo ci instrada nella scoperta della vita della famiglia Levov, ha un carattere fortemente cinematografico. Un canone, quello della narrazione a posteriori, già visto e rivisto nei classici.

Viene così in mente per esempio il rito d’iniziazione in “Stand by me” di Rob Reiner (1986), altra storia “americanissima”. Anche se là l’esperienza raccontata dallo scrittore ormai adulto ha tutt’altro sapore e intento. Qui ci troviamo al cospetto di un David Strathairn nei panni dell’alter-ego Rothiano, protagonista di tanti altri romanzi, Nathan Zuckerman. Saltando l’introduzione del romanzo (che vede Nathan incontrare Seymour per ben due volte nell’85 e nel 95), la pellicola comincia con la rimpatriata tra vecchi compagni di scuola in cui lo scrittore riconosce tra i partecipanti, il fratello dello Svedese. Questa figura per altro era legatissima durante l’infanzia a Zuckerman, cosa di cui però il film non fa cenno. I due si ritrovano così un po’ per caso (entrambi sembrano essere a quella festa soltanto perché non avevano niente di meglio da fare) e Nathan scopre che l’indomani è il funerale del grande Seymour lo Svedese. Colto da un grande sconforto per quello che ai suoi occhi era sempre stato un eroe, invita Jerry Levov a raccontargli come andarono le cose. E così quella sera il grande “American Hero” cade in un vortice che lo risucchia, lo consuma, lo porta alla morte.

Un film commovente che riesce nel suo intento: quello di presentare e, perché no, invogliare gli spettatori più ricettivi, a riscoprire il romanzo di Philip Roth. Quell’iperbole discendente dei vecchi sogni americani cancellati da due generazioni successive. Perché se la pellicola non lo racconta, concentrandosi principalmente sulla vicenda centrale del romanzo (la tragedia di Merry, le rivolte operaie e la crisi dell’industria un tempo florida negli anni 60), durante il ventennio tutto scorre sotto un’ipocrisia straziante. Seymour si risposa e sembra abbandonare definitivamente le tracce che lo portarono a scovare dove fosse realmente scomparsa la figlia (diventata uno scarto della società, si confina ai bordi di Newark in una sorta di ascetismo da accattona). Gli anni 80’ scivolano via sotto un silenzio agghiacciante (dalla crisi degli anni 60 allo spostamento dei luoghi di produzione nell’estremo oriente) e la tripartizione del romanzo in “Paradiso Ricordato”, “La Caduta” e Paradiso Perduto” si stringe in un continuum temporale questa volta davvero ben costruito da McGregor.

Va comunque, in ultima analisi, ricordata la figura di Rita Cohen splendidamente interpretata da Valerie Curry che gioca il ruolo di intermediaria tra Seymour e Merry. Le scene che la vedono protagonista sono, ma qui veramente scendiamo nel giudizio personale, quello più incalzanti e tese del film (dall’appuntamento nell’albero a New York City, alla rivelazione che Rita farà a Seymour, con un tocco d’ironia ben tagliato, in visita alla fabbrica di guanti). Sorprende un po’ l’interpretazione di Jennifer Connelly nel personaggio di Dawn Dwyer, che non appare all’altezza sicuramente delle grandi comparse passate a cominciare da “C’era una volta in America” del 1984. Ma McGregor si sente comunque un vincente dichiarando alla fine delle riprese “Ho vinto la sfida, la mia regia piace anche a Roth!”

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Il consiglio è sempre quello di sperimentare. Curiosare e cercare dei responsi successivi alle proprie azioni. Perciò prendetevi due ore di tempo e guardate “The American Pastoral” di McGregor, forse vi potrà lanciare in una nuova appassionante lettura. O farvi riflettere su cosa oggi irrimediabilmente abbiamo conservato, cosa perduto di quell’”American Dream” che Roth presenta all’inizio del libro, citando, una canzonetta degli anni quaranta di Johnny Mercer:

Dream when the day is thru,

Dream and they might come true,

Things never are as bad as they seem,

So dream, dream, dream

Grazie per la disponibilità al Cinema Massimo di Torino: qui il programma completo