Lo scrittore americano – ospite a Torino per presentare il suo ultimo romanzo “Zero K” – dialoga con Giuseppe Culicchia di letteratura, cinema e di un mondo al collasso.
di Jacopo Lanotte – Una coda lunga interminabile schernisce i ritardatari. Momenti di noia esistenziale riempiono il tempo in attesa dell’evento. Continuano ad aprirsi e chiudere i cancelli e due americani silenziosi leggono romanzi su supporti elettronici. Tutti in fila davanti al Circolo dei Lettori di Via Bogino, 9. Compare, nel programma del salotto torinese, un annuncio speciale, accolto con entusiasmo: il narratore oscuro e riservato delle paure americane è qui, ospite nella roccaforte letteraria sabauda per eccellenza.
Le sale cominciano a popolarsi di chiacchiere forse inopportune, la coda si consuma e, senza tante esitazioni, proprio lui con un inconfondibile accento newyorkese, comincia a leggere le prime linee di “Zero K” , da poco dato alle stampe (nel maggio 2016, negli States e successivamente in Italia per Einaudi, tradotto da Federica Aceto). “Tutti vogliono possedere la fine del mondo” si schiude l’incipit della narrazione, proseguendo e delineando le figure principali che assilleranno la mente del lettore lungo i canali sotterranei di “Convergence” (l’Azienda Fantomatica, ambiente principale del romanzo, che iberna esseri umani per poterli risvegliare in un futuro migliore, libero dalle malattie mortali). Di Morte si parla. Fin da subito.
Tornando quindi indietro si coglie particolare interesse nella rilettura di Rumore Bianco il libro che nel 1985 lanciò il presente ottantenne, molisano-americano, Don DeLillo. Negli anni ottanta viveva in Grecia ma la madrepatria lo assaliva continuamente con i suoi mostri sotterrati (la società iper-consumistica, l’informazione capillarizzata, i motels, le cittadine del middle-west tutte uguali, non-luoghi di cui gli Stati Uniti sono costellati). La minaccia tossica allora, il criocongelamento oggi.
Come evadere l’incapacità di accettare la finitezza della vita? Per Ross Lockhart, colui che all’interno di “Zero K” incarna più di tutti il Capitalismo bieco, spiega Giuseppe Culicchia (relatore dell’incontro), la soluzione è legata ad uno sviluppo affinato delle Scienze e delle nuove tecnologie di conservazione biologica. Lo stesso Delillo afferma che, seppur non ne usufruisca direttamente (“scrivo ancora con la macchina da scrivere”) le osserva con attenzione, le scruta in lontananza, non potendo non accorgersi di quanto siano diventate oggi: le due nuove religioni del secolo contemporaneo.
“Chi lavora all’interno di “Convergence” è consapevole di ciò che sta producendo… eppure ha bisogno di nasconderlo sottoterra, in un luogo inquietante per pochi eletti. La catastrofe è imminente, loro lo sanno, ma non lo comunicano”. Cosa accadrà nel futuro prossimo in effetti è una questione ottenebrante “ciò che ci succederà nel futuro in realtà ci è già successo secondo alcune correnti filosofiche che stimo e seguo” rivela, ma il nucleo centrale della storia ruota attorno questo universo, prossimo al crollo. La forte presenza di video che, nei corridoi dell’Azienda riproducono brevi filmati di catastrofi naturali, tra cui spicca quella del meteorite schiantatosi sul suolo russo soltanto qualche anno fa, è un meccanismo per fortificare quelle ansie di cui si parlava poco fa, per rendere consapevoli i clienti dei rischi che l’umanità sta correndo.
L’introduzione dell’elemento cinematografico d’altronde è sempre stata una caratteristica della prosa Dondelilliana. Fin dall’uscita di Americana (che per altro vede protagonista un regista disilluso dalla vita lavorativa newyorkese) per un periodo molto intenso della sua vita, l’autore di Underworld è stato costantemente stregato dalla tecnica di riproduzione filmica. Ne abbiamo traccia in Libra, nei filmati dell’assassinio di Kennedy. Ritorna ora nel 2016 quell’ossessione in particolare per il cinema di Kubrik, come infatti non menzionare “2001, Odissea nello Spazio” leggendo il romanzo.
«Quello che m’interessa è l’immagine. Si proietta sulla carta e si traduce in frasi in parole. Le seguo con calma, con occhio attento senza perderne il filo, come una macchina da presa»
Proprio attraverso queste dinamiche prese avvio la stesura “Zero K”. Si trovava in una zona di sobborgo, racconta Delillo, ed improvvisamente scorsi una lunga fila di case, tutte uguali, anonime, impersonali. Le riflessioni cominciarono a susseguirsi, “chi ci vivrà?” “quali saranno i motivi che hanno portato l’edilizia ad erigere tali monumenti all’assenza?”. Senza giustificazioni, la realtà si relaziona con la finzione inscenata dal testo scritto, si colora di espressioni colloquiali, epigrammatiche talvolta (Hemingway d’altronde sotto certi aspetti è sempre un suo maestro) che riportano il lettore a quel momento, quell’attimo in cui lo scrittore a elaborato la sua storia ed è coinvolto nel raccontarla.
La sala echeggia, rumoreggia la caffetteria del Circolo, quando dovrebbe esserci il silenzio, per ascoltare, per comprendere. La galleria anche durante l’incontro ospita un via vai di uditori, qualcuno esce, qualcuno rientra. Si perdono le parole soffuse di Delillo, quando ecco che riemerge la voce chiara di Culicchia che re-interpreta un ultimo passaggio di “Zero K”: “Mi ha ricordato “Il Cielo sopra Berlino” di Wenders”. “Adoro quel film: ho presente l’immagine che lei ha in mente ma no, non era nei miei piani quando la scrissi”. Stiamo ora parlando della figura più emblematica del romanzo, quella dove la crisi è evidente e si realizza proprio per questo nella figura del narratore interno alla storia: Jeff Lockhart. Si completa così uno dei quadri famigliari più curati, “frase per frase” come spiega Delillo. Il conflitto che consuma Jeff verso un padre, Ross, in antitesi con i suoi progetti, considerato pazzo per l’idea sconsiderata di farsi egli stesso ibernare insieme alla moglie malata di Sclerosi Multipla, lo gettano nell’anonimato. Nel caos linguistico: “Jeff pronuncia parole, emette suoni che io stesso ho dimenticato” continua l’autore. Con la sua perdita di consistenza, al tempo stesso mette in atto un meccanismo narrativo geniale, rendendolo testimone di una crisi su scala universale. Ma è la famiglia, Don ci tiene a rimarcarlo, il vero e autentico punto di sutura del testo. Tiene insieme gli elementi che altrimenti lo disgregherebbero… e in ultima ovviamente il sentimento di fedeltà e d’amore.
Conclude così le linee del discorso, l’ultima immagine forte di “Zero K” è quella di un bambino seduto su un autobus a New York City. E’ luglio e in questo particolare periodo dell’anno il tramonto si riverbera in maniera estremamente affascinante sui grattacieli di Manhattan. Ci sono persone che si danno addirittura appuntamento per osservare questo fenomeno, escono dagli uffici si riversano nelle strade affollate della città. L’alone solare produce un bagliore fortissimo che si riflette nello specchietto retrovisore di un autobus in cui sta viaggiando un bambino. E’ estasiato. I suoi occhi si riempiono di stupore di felicità e un uomo su quell’autobus lo osserva e si sente vicino in qualche modo a quei sentimenti sinceri. Secco il commento di DeLillo: “Non ho scelto un finale del genere perché volessi terminare il libro all’insegna della felicità e della speranza, ma perché quell’uomo ero io”.
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Ringraziando per l’ospitalità, vi rimandiamo al programma completo degli eventi al Circolo dei Lettori.