R.I.P. Andrzej Wajda: il cinema come medicina

Omaggio al grande cineasta polacco scomparso di recente, all’«uomo di ferro» amico di Solidarność: ha raccontato le ferite della sua terra come nessun altro.  Instillando sempre un barlume di speranza nello spettatore. 
 *
di Silvia Ferrannini  –  Il popolo polacco è introverso ma leale. Stringe in mano e nel cuore la sua storia, in nome di una fiera intraprendenza troppo spesso tacciata (riecheggia qui Adam Mickiewicz: “Patria mia! Tu sei come la salute. Quanto ti si deve apprezzare, può solo testimoniarlo chi ti ha persa…”) e di un inguaribile romanticismo che traluce dietro alla quasi proverbiale ruvidità.

 «La commozione di Papa Wojtyla alla proiezione di “Pan Tadeusz”, nel riconoscere in quell’epopea il dolore e la rabbia della sua terra madre»

Le difficoltà nell’uscire dall’eccesso di rigore e disciplina (ovvi retaggi di un fervido cattolicesimo, e di un socialismo forse non troppo “reale”), ma la Polonia ha l’asso nella manica: l’amore per arte come metafora e racconto, verità e incanto. Ecco perché il riscatto di un passato ancora troppo dolente qui parte dalle Università, dai Centri di Cultura e di Scienza, dagli studi. Anche il veneratissimo Giovanni Paolo II, che tanti risentimenti ha mitigato e tante anime confortato, adorava l’arte e la sua verità fino alla commozione: ed è esattamente quanto accadde nel 2000, quando nel corso della proiezione di Pan Tadeusz, grande poema cinematografico di Andrzej Wajda, il Santo Padre non poté non piangere nel riconoscere in quell’epopea il dolore e la rabbia della sua terra madre.
 *
AppleMark
AppleMark

«Wajda è stato tanto amato perché sapeva affabulare senza fingere»

Sono gli uomini come Wajda che permettono alla Polonia di curare le ferite: Wajda è stato tanto amato perché sapeva affabulare senza fingere. Kanał (1957, Premio della giuria a Cannes) e Cenere e diamanti (1958), nascono dalle pagine della letteratura nazionale e rompono con i canoni del socialismo reale, iniziando così a tracciare una linea artistica che in pellicole come La terra della grande promessa (1975) e Le signorine di Wilko (1981) disegna grandi affreschi di memoria e riflessione. Per Wajda bisogna tornare a conoscere, a reindividuare i ruoli, ricercare una forma di contemplazione del quotidiano. E per quanto i suoi lungometraggi parlino quasi precipuamente della storia della Polonia, in ogni scorcio fa prepotentemente capolino la Storia tutta. L’uomo di ferro e di marmo Lech Wałęsa si affrancò dal blocco sovietico con Solidarność in nome del dialogo e della libertà, proprio come tanti altri uomini fin dagli albori dell’umanità (L’uomo di ferro fra l’altro vinse la Palma d’Oro a Cannes nel 1981).

«I polacchi non raccontano volentieri i trascorsi della loro nazione: ma della bellezza della loro arte sempre e volentieri, con una malcelata punta di superbia e di amarezza perché “non si parla mai abbastanza delle grandi capacità creative degli artisti polacchi”»

Il grande pregio della Storia rispetto alle miriadi di storie e storielle di cui il nostro amato globo cola è che non è commentabile ma solo comprensibile. Perchè l’uomo non sa tante cose, ma quel che ha fatto o detto in passato sì. Forse questa idea fu chiara e viva fin dai suoi primi racconti in Wajda: perciò prende le mosse da palcoscenici che conosce bene e prova a parlare anche di ciò che gli è più estraneo. Ma non ci esibiamo forse tutti ogni giorno a perfetti sconosciuti?
 
Wajda fu un uomo sensibilmente attento ed incredibilmente innamorato. Della sua terra, della poesia e della possibilità di narrare. Dal 9 ottobre il suo volto sempre allegro campeggia su ogni quotidiano polacco, e il suo occhio vigile continua a vegliare su Varsavia: per l’esattezza in Chełmska 21, dove il Wajda Studio continua a tramandare la sua lezione. I polacchi non raccontano volentieri i trascorsi della loro nazione: ma della bellezza della loro arte sempre e volentieri, con una malcelata punta di superbia e di amarezza perché “non si parla mai abbastanza delle grandi capacità creative degli artisti polacchi”.
 
La poesia spesso funziona come medicina, e Wajda ha insegnato al suo Paese che non è neanche tanto doloroso assumerla.
*