The Get Down: le kitsch c’est chic

Baz Luhrmann incontra Grandmaster Flash. Un musical ambientato nei sobborghi del Bronx? Un’opera titanica per raccontare la mitologia dell’hip hop?  Una sorta di Giuletta & Romeo nella New York multirazziale degli anni Settanta? 

Come al solito, lo stile barocco del regista americano divide gli spettatori, ma raramente lascia indifferenti. A noi, nel dubbio, sale l’acquolina per l’unica data italiana di sua maestà Grandmaster Flash, in arrivo a Torino a dicembre per il Jazz:Re:Found Festival

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di Mattia Nesto  –  Quando a metà estate Netflix ha rilasciato la serie The Get Down pochi, bisogna ammetterlo, sono rimasti indifferenti. Infatti preceduta da un battage pubblicitario massiccio e (quasi) senza precedenti, l’opera prodotta da Baz Luhrmann, ancora prima di aver visionato anche un solo fotogramma, già si annuncia come una delle “serie indispensabili” del 2016.

Dopo un paio di mesi da quel caldo giorno di luglio, si possono tirare le fila e trarre, si spera, le giuste conclusioni. Innanzi tutto il primo dato che emerge, con vivida chiarezza, è come sì il fine di The Get Down sia stato ampiamente raggiunto: la serie è stata chiacchierata, discussa, condivisa e postata su tutti i social possibili ed immaginabili, portando il servizio in streaming americano Netflix ha risultati davvero molto lusinghieri. Perciò, prima di cominciare con qualsiasi argomentazione di merito, sulla qualità o meno del prodotto artistico, va rimarcato con forza che The Get Down, almeno per la sua prima stagione, è stata una serie di grande, grandissimo successo che ha conquistato una fetta di pubblico amplissimo, ben oltre i più o meno rigidi confini della “primigenia” cultura hip-hop/rap.

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Si prenda la scena della canzone Set Me Free di Mylene Cruz, l’eroina del racconto. Lo spettatore è come trascinato dal vortice del pezzo che, in un perfetto crescendo di ritmo e di pathos, porta ad una sorta di esplosione finale, un concerto che diventa una “messa pop”

Già perché è di questo che stiamo parlando: The Get Down, prendendo idealmente il “testimone” da Vynil (la serie per certi aspetti completamente opposto firmata HBO), racconta la nascita della musica e, soprattutto, della cultura hip-hop nela New York City di fine anni Settanta. Un periodo ed una città questi non soltanto crocevia artistico principale dell’Occidente moderno ma, anche e soprattutto, culla di nascita di un’espressione artistica che, volente o nolenti, ha conquistato mezzo mondo. Quindi un’opera titanica quella di Lur e soci, ovvero raccontare la mitologia, anzi per meglio dire la genealogia, l’inizio insomma, di quello che è diventato, con gli anni e col tempo, con gli artisti e i grandi successo, un esperanto di proporzioni globali.

Partendo da qui, anche in tale caso, The Get Down non ha deluso le aspettative. Infatti tutta una ridda di commentatori ed appassionati di hip-hop erano pronti a, letteralmente, massacrare la serie di Netflix: erano già pronti i commenti al vetriolo e gli improperi dimentichi di ogni possibile bon-ton sui blog e sulle fanzine specializzate. E invece no. No perché The Get Down, con il racconto semplice di una sorta di “Giuletta&Romeo” con sottofondo hip-hop nella New York multirazziale e ispanica degli anni Settanta, ha perfettamente centrato lo spirito, un po’ avventuroso un po’ guascone, di quel periodo così ruggente e fecondo.

Preferendo la levità alla profondità dei contenuti, Baz Luhrmann, nella scintillante caratterizzazione tipica dei suoi lavori, è stato in grado di evocare tutto un mondo che, sia al fruitore più attento ed informato che allo spettatore occasionale, non potrà che venire percepito come un momento e un luogo fatale, fondamentale per la cultura dei nostri anni.

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La gang del Bronx

La centralità che in The Get Down viene data al concetto di gang, nell’accezione più nobile e larga del termine, è poi un altro dei punti cardine della scenografia. Pur avendo dei protagonisti riconosciuti, The Get Down presenta, come una sorta di grande fiume che scorre nella pianura e che poi crea mille rivoli ai lati, tutta una serie di storie e personaggi che, lungi dall’essere accessori, sono parte integranti della, per così dire, storia centrale.

Le caratterizzazioni poi, sottoposte anche a più di un’analisi, paiono essere fedeli a persone o realmente esistenti o che avrebbero potuto perfettamente girare per il Bronx in quegli anni.

Il Bronx è poi un altro degli elementi cardine di The Get Down. Come spesso capita in Luhrmann, il quartiere “prende vita”, colorando ogni cosa e ogni vicenda con le sue tinte, con le sue atmosfere di giungla metropolitana. Quei luoghi newyorkesi così fatiscenti e sventrati da una urbanizzazione speculative che, di lì a pochi anni, avrebbe dato i suoi frutti, sono lo scenario ideale per le artigliate vicende proposte.

Vera e propria eccellenza di The Get Down – assoluto marchio di fabbrica del regista di “The Great Gatsby” – sono poi le scene corali, in maggior misura quelle di canto/ballo. Probabilmente, e qui i detrattori e gli ammiratori si trovano d’accordo, non vi è oggi regista in grado di mettere in piedi scene con decine e decine di attori senza sbagliare un’inquadratura, un passo o una sequenza narrativa come Baz Luhrmann.

Si prenda, ad esempio, la scena della canzone Set Me Free di Mylene Cruz, l’eroina del racconto. Lo spettatore è come trascinato dal vortice del pezzo che, in un perfetto crescendo di ritmo e di pathos, porta ad una sorta di esplosione finale, un concerto che diventa una “messa pop” (dato che, giustappunto, ci si trova in una chiesa) dal grande, grandissimo impatto emotivo. Sicuramente riuscitissima la scena del get down”, ovvero della scoperta dell’arte di “far suonare i dischi”: un momento cruciale non solo nell’economia di questa storia ma nel complesso della Storia della Musica tour court.

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Il miglior product-placement della nostra vita?

Ma proprio questi scenari scintillanti, queste scene perfette e questa perizia maniacale nei dettagli è proprio quello che fa di The Get Down il miglior product-placement possibile (ovvero la tecnica commerciale di posizionare in film o spettacoli televisivi un prodotto in bell’evidenza). Infatti, prendendo spunto dalle onnipresenti Puma Rosse indossate da Shaolin Fantastic (guarda caso l’azienda sportiva tedesca è uno dei main-sponsor di The Get Down), tutto è rientrante in un universo conchiuso e perfetto senza che mai e poi mai, neppure nelle scene più “fuori di testa” e tensione, nessun personaggio appaia troppo sulle righe, sguaiato oppure, umanamene, sguaiato.

Anche in una gara tra ballerini disco/funk all’ultimo sangue oppure in uno scontro tra mc e crew rivali, una specie di sovrana e, occorre dirlo, impettita eleganza, regna sovrana. Questo, se nella poetica di un Wes Anderson o di un Roberto Rossellini (registi “freddi” e “scenografici” per eccellenza) sono un punto di forza, in special modo per le vicende e i toni descritti, in questo caso, per descrivere la magmatica e vulcanica NY di quegli anni, pare essere una scelta un po’ così. Non è errata a prescindere, dato che viene attuata senza sbagliare di una virgola ma, forse, per raccontare il più rivoluzionario dei generi musicali, il primo che, in assoluto, non sentendosi, perché veniva dopo, “meglio degli altri”, prendeva il meglio del meglio dei generi precedenti, lo mischiava con la cultura, il vissuto e lo slang di strada e, dopo una spolverata di funky, lo consegnava a tutto il mondo, serviva altro. Serviva una narrazione più affilata e muscolare, che non si perdesse nelle descrizioni perfette degli occhiali dalla montatura d’oro del rappresentante della comunità costaricana newyorkese ma che descrivesse i ratti, i bassifondi, i meandri della droga, le feste illegali e il sudore della scena hip-hop. Ma, del resto, è pur vero che lo “swag” sia qualcosa di legato a filo doppio alla cultura rap. 

Le scarpe rosso fuoco che non si sporcano mai e poi di Shaolin Fantastic rappresentano in toto che cosa sia, almeno per la prima stagione, The Get Down: il miglior product-placement che potessimo desiderare… ma siamo proprio sicuri possa durare nel ricordo e nella memoria collettiva negli anni? Non sarebbe, forse, stato meglio sporcarle un po’ quelle sneakers con il fango della strada e con gli inserti di un vissuto che, per forza di cose, cultura e umanità, dev’essere tribolato. Che avvenga nelle prossime stagioni della serie? 

Qui trovi il programma completo del Jazz:Re:Found Festival di Torino con Grandmaster Flash, De La Soul e molti altri.

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