[REPORT] Il suono del ricordo: una serata musicale per Federico Aldrovandi

Per l’undicesimo anniversario della morte di Federico, ci siamo ritrovati a Ferrara. Ricordi, onde musicali e sensazioni si sono intersecati tra di loro, creando una serata forse troppo complessa per essere raccontata. Una serata che valeva davvero la pena di vivere. 

di Yannick Aiani  –  Capita quasi sempre che, volendo esprimere sentimenti complicati, volendo dare una forma a un dolore che ci mastica le interiora, ci avventuriamo in discorsi di lunghezza omerica, salvo poi accorgerci di non essere riusciti a dire alcunché. Per sputare fuori la sofferenza provata da tutti coloro che sono stati feriti dalla morte di Federico Aldrovandi, è risultata molto più catartica la brevitas punkettona di Giorgio Canali, notoriamente in grado di evitare i polpettoni lunghi e inconcludenti.

“Quello che è successo undici anni fa è stato uno schifo, una merda. Il fatto che dopo undici anni ci troviamo ancora tutti qui a ricordarlo: ecco, questa invece è una cosa molto bella, davvero figa.”

La serata ferrarese del 24 settembre è partita da questa frase, per concentrarsi sul ricordo del 18enne ferrarese, morto per mani di quattro agenti di polizia: scivolando via da tutte le polemiche (specialmente politiche) che la vicenda ha sollevato e continua a suscitare, l’ONLUS Federico Aldrovandi ha riservato tutto lo spazio alla genuinità dal ricordo, intonso da rivendicazioni o da angoli d’odio. Se è pur vero che devono esserci momenti per sfogare la propria rabbia, quello che abbiamo respirato nella piazza del municipio estense è stato un vento di raccoglimento; così, nella cornice tanto affascinante quanto intimistica del centro ferrarese, un buon numero di presenti si è radunato, non solo per l’ampiezza del cartellone musicale proposto, ma anche per ascoltare le parole dei genitori di Federico.

Parole delicate e mosse dal profondo, allo stesso tempo ricche di spunti doverosi: sottolineiamo soprattutto le frasi di Patrizia Moretti, salutata dai cori e degli ultras ferraresi della SPAL, riguardanti l’aumento della xenofobia in Italia (spunto assolutamente coerente con la morte di Federico, dato che gli agenti imputati tentarono di giustificarsi affermando di aver scambiato il diciottenne per uno straniero).

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Francesco Motta

Il sentimento di raccoglimento e di intimità non è rimasto limitato alle parole pronunciate dal palco: per tutta la piazza abbiamo respirato un odore casalingo, mentre lo “zio” Giorgio Canali faceva spola tra il bar ed il sottopalco e gli Zen Circus, invece, preferivano rimanere nel primo a sbevazzare in allegria. Sotto le luci del palco, inoltre, le prime esibizioni sono avvenute nel segno dell’acustica; ha aperto Francesco Motta, fresco del suo La fine dei vent’anni. In formazione ridotta, con l’appoggio unicamente di una chitarra ed un violino, il cantautore toscano ex-Criminal Jokers ha proposto i suoi pezzi forti del lavoro solista. Sul finire del set (che, come nel caso delle altre esibizioni, ha avuto una lunghezza di mezz’ora), le note di Sei bella davvero e La fine dei vent’anni, dedicata proprio a chi non si è potuto godere nemmeno il compimento dei vent’anni, figuriamoci la fine. Nel corso della coda strumentale dell’ultimo pezzo, un crossover ad anticipare il secondo set: sbuca, forte di canottiera e microfono (il Kimball apparirà dopo, nel cambio palco) l’intrepido Giovanni Truppi, pronto ad usare il tappeto delicato de La fine dei vent’anni per salmodiare la sua Conversazione con Marco sui destini dell’umanità.

“Quasi tutti gli dedicheranno almeno una canzone a Federico: ma il pensiero comune, di chi si esibisce e di chi assiste, si riassume nel mantra “non abbiamo bisogno di parole”

Un quarto d’ora d’attesa e l’autore napoletano rispunta, in una formazione che, riducendosi ancora di più rispetto a quella precedente, comprende solamente autore e pianoforte. Perlopiù, lo spazio viene riservato ai pezzi dell’ultimo album, l’omonimo Giovanni Truppi (2015); ma, per quanto i testi di Truppi possano essere oggetto di divisioni insanabili (trattandosi di un modus scribendi che può emozionare profondamente o far aggrottare il sopracciglio, a seconda dell’ascoltatore), la solitudine musicale del pianoforte alla lunga ha pagato dazio. Vicina alla conclusione del set, dopo Tutto l’Universo, Il pilota è vivo e l’orecchiabilissima (forse anche troppo?) Stai andando bene, Giovanni, una gradita sorpresa: Truppi riprende Costole Rotte di Coez, la mastica per bene e la risputa sui tasti del Kimball, proponendo una versione toccante ed aderente ai fatti di undici anni fa. Come ultima canzone, esce dall’ultimo lavoro discografica la Lettera a Papa Francesco I, dal sapore forse un po’ paraculo, certamente classificabile nella categoria di cattocomunismo. Può piacere o meno, ma non lo si può accusare di mancanza d’autenticità. Purtuttavia, ribadiamo che avremmo preferito un tappeto musicale più vario. Anche se l’acustica ovattata ha ormai lasciato spazio al suono di matrice elettrica, non per questo l’intimità della serata viene a dissolversi. Anche gli altri tre gruppi dedicheranno dei pensieri a Federico, quasi tutti gli dedicheranno almeno una canzone: ma il pensiero comune, di chi si esibisce e di chi assiste, si riassume nel mantra “non abbiamo bisogno di parole”.

Così, nessun musicista sale sul pulpito a predicare; anzi, il maggior numero di pensieri su Federico viene espresso dal cavaliere dell’antiretorica Canali. Con frasi schiette e mai banali, in grado di esprimere la convivenza tra il dolore per la mancanza e la rassicurazione nello scoprirsi uniti e numerosi.

Giorgio Canali
Giorgio Canali

Sono le parole di Patrizia Moretti a segnare il secondo cambio palco della serata; al posto del voluminoso Kimball fuoriescono i quattro Majakovich. Malgrado l’applausometro non li premi eccessivamente, sfornano una mezz’ora più che degna, tra inquietanti sottofondi di tastiera e botte sapientemente scagliate sulla batteria. I primi due pezzi, estratti dall’ultimo lavoro Elefante, consistono nella titletrack e in Casa, introdotto con l’ormai consueta dedica a Federico. Considerando che, nella galassia Majakovich, ci troviamo nel tour di Elefante, uscito a gennaio 2016, diventa comprensibile la scelta della scaletta, che attinge quasi interamente all’album (non manca il singolo Maledetto Me), con l’eccezione di Colei che ti ingoia.

Usciti i Majakovich, sono le parole di Lino Aldrovandi a portarci in avanti, dall’ovvio momento del ricordo (in cui quella lieve incrinatura nella voce tocca tutti) alla presentazione di Canali, padrone di casa e celebrante della serata, premiato per la sua vicinanza alla famiglia con un presente (chiaramente alcolico). A fianco degli immarcescibili Rossofuoco, lo “zio Giorgio” (Appino dixit) non si fa pregare e schitarra la cover di A.F.C. dei L’Upo, scomodando il ricordo di Fausto Coppi (chiaramente, un estratto di Perle per porci, ultima fatica composta da cover, per la maggioranza poco conosciute).

Inframezzata dalle parole che abbiamo già ripercorso, la messa satanica del nostro preleva pezzi di qua e di là; e poco importa che l’imprevedibilità di Canali renda assolutamente impossibile cantare in coro almeno i suoi brani di maggior successo, perché assistere ad un suo concerto vuol dire guardarlo e cercar di indovinare cosa possa tirare fuori. Straniti, come gli spettatori dei primi Stooges. E la dimostrazione che la somiglianza con l’Iguana non sia solo fisica (forse, addominali a parte: ma è un punto che non vogliamo appurare) emerge alla fine de Tutto è così semplice, quando a Martelli si ostruisce la vena del punk e la cover di Macromeo si trasforma nell’abbaiata sempreverde di I wanna be your dog. Le canzoni finali fanno parte dei cosiddetti classici: dopo Alèalè e Precipito, arriva la volta di Nuvole senza Messico. L’esecuzione è stravolta, con la prima strofa trasformata in un recitativo e la seconda praticamente dimenticata in funzione del ritornello; Canali si dimentica un buon 40% delle parole e cazzeggia sul resto del brano, ma in fondo lo amiamo proprio per l’implacabile dissacrazione, estesa anche e soprattutto verso se stesso. L’accoppiata Canali-alcol ringrazia e se ne va, dopo aver regalato, in chiusura, l’immancabile Lettera del compagno Lazlo al colonnello Valerio, priva di ‘sta cazzo di armonica che non piace a nessuno e condita dalle soavi invocazioni alle divinità.

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All’uscita di Canali, si registra il più alto numero di astanti nel corso della serata: affluenza comprensibile, visto che si tratta della prima uscita italiana degli Zen al di fuori delle Feltrinelli. In attesa della loro prima performance elettrica (gli impazienti si segnino la data del 28 ottobre, al TPO di Bologna), i tre rimangono fedeli all’acustica che aveva accompagnato le prime esibizioni della serata e soprattutto il loro minitour librario per la penisola, con annessa batteria alternativa di Karim Qqru. Dopo la solita dose di cabarettismo toscano a condire il soundcheck, arriva la dedica della breve Vent’anni. Prima di regalare due pezzi de La Terza Guerra Mondiale al pubblico, gli Zen fanno spruzzare il miglior vino della casa: ad Andate tutti affanculo (dedicata con calore al pubblico, come da usanza) e Figlio di puttana (dedicata da Appino ad un Ufo troppo loquace per le tempistiche serrate), segue la più recente Viva (giustamente scelta come singolo in Canzoni contro la natura) e L’amorale (giusto per continuare il rapporto amorevole con Dio che era stato inaugurato da Canali). Arriva quindi il momento dell’ultima cantina, dalla quale i tre si limitano a presentare solo due bottiglie. C’è l’ormai conosciuta Ilenia, con uno dei migliori testi della discografia Zen/Appino (per quanto la versione acustica le renda meno giustizia di quanta meriterebbe), e Pisa Merda, in odore di diventare un classico (per quanto, sinceramente, in questo caso il testo non ci faccia impazzire). Sfortunatamente per gli appassionati del circo Zen – composti per la stragrande maggioranza da studenti bolognesi in pellegrinaggio – il suono del gong scocca all’una e, dopo il ritorno al passato con L’egoista, Appino e soci devono salutare.

Dopo l’ubriacatura firmata Zen, ritorna Patrizia a salutare e ringraziare tutti: ed è allora che la sbornia musicale ripassa in secondo piano, sostituita da altre sensazioni, altri pensieri. Pensieri che è meglio custodire nella testa, senza prendere in mano la penna: sensazioni che, in fondo, diventano talmente brucianti da non essere più esprimibili.