Il “patto di sangue” degli artisti Michele Gabriele e Alessandro di Pietro per una mostra “sentimentale” che riflette sullo scorrere del tempo…
di Federica Giallombardo – La mostra, organizzata da Treti Galaxie e curata da Matteo Mottin con la collaborazione di Ramona Ponzini, racconta attraverso un filo conduttore nella storia e nello spazio due giovani artisti, Michele Gabriele e Alessandro Di Pietro, legati da un “patto di sangue” (come lo ha definito lo stesso Mottin) nonché dalla poetica del Bello e della Morte.
Ogni artista sente un particolare richiamo dalla morte; ovvero quello dell’opera che deve essere terminata per lasciare un retaggio, un segno nel mondo del proprio passaggio; senza contare il tempo che passivamente logora l’ingegno e la vitalità della visione artistica. L’idea della morte come scandaglio del tempo riempie le biografie dei Sommi: da Seneca a Petrarca alla contemporaneità l’estenuante dignità dell’opera come simbolo dell’esistenza personale (e umana in generale) richiede spontaneo sacrificio e meditazione costante sulla finalità della vita. Nel caso specifico, Giorgione fu amico-maestro di Tiziano, al quale concedette come eredità il tenero onore e il severo onere di completare le sue opere rimaste incompiute dopo il trapasso.
Sul rapporto tra Giorgione e Tiziano si è spesso dibattuto; pochissime sono le testimonianze della corrispondenza tra i due e l’attribuzione di alcuni dipinti non sempre appare limpida agli storici dell’arte. Tiziano nei primi anni di formazione fu “giorgionesco” (moltissimi sono gli esempi di motivi, strutture e sensibilità comuni) per poi differenziarsi in maniera vigorosa, rivendicando anche la differenza generazionale tra lui e il suo modello (Giorgione nacque nel 1476; Tiziano, presumibilmente, era più giovane di dieci anni).
L’unica sicurezza filologica è l’amicizia che legò i due pittori: la loro affinità emotiva delinea l’estetica del colore e del tratto e l’idea comune che il Vero ha bisogno dell’Ideale “per comparir vero”. Idea estremamente contemporanea; tanto da essere ripresa dai due artisti della mostra, Michele Gabriele e Alessandro Di Pietro, che hanno deciso di ripercorrere la storia dei due rinascimentali concordando un “patto”: chi dei due sopravvivrà all’altro dovrà completarne l’opera, proprio come Tiziano fece alla morte di Giorgione, riempiendo le campiture ed esaurendo i bozzetti.
“L’idea principe è l’eternità dell’opera che sopravvive all’uomo”
La differenza sostanziale è che le due opere esposte non vengono estraniate dall’attualità, dalla vita degli artisti; esprimono cioè la consapevolezza di volersi esaurire compiendosi in vita aspettando la morte. Le due creazioni sono perciò di per sé considerabili autonome dal creato dell’altro amico: sono state già finite dalla prima mente partoriente e non costituiscono necessariamente una composizione inseparabile – anzi, addirittura i due artisti non hanno comunicato tra loro durante tutto il periodo di realizzazione delle opere, se non tramite il curatore. Il “patto” richiede quindi di “aggiungere” il proprio contributo a ciò che è già ritenuto “completo” dall’altro artista, non di “riempire” l’incompiuto in senso stretto.
L’insieme che ne risulta è la sintesi di un lavoro emblematico, di ricerca di sé e delle tracce dell’altro su di sé; è un approccio concettuale che si piega al peculiare periodo della vita e dell’amicizia dei due artisti, parallelamente a una visione più amplia del legame tra l’opera e la sua eredità agli occhi degli affetti. Le due opere sono il frutto della costante consapevolezza della propria morte – un esigente conto alla rovescia – e di quella dell’altro: l’imprevedibilità della morte trascina con sé la furia del dover completare il lascito creativo, tanto da sacrificare la complessità in favore dell’immediatezza del simbolo. L’idea principe è l’eternità dell’opera che sopravvive all’uomo; per questo motivo i due artisti hanno utilizzato tecniche e materiali che entrambi sapevano maneggiare virtuosamente (ad esempio il silicone), agevolando la continuità dell’espressione del Bello e della Morte nella linea di successione.
Michele Gabriele ha realizzato l’opera con estrema fretta, senza soffermarsi sulle migliorie possibili; un vero e proprio rifiuto del labor limae, negato necessariamente per concludere l’opera e nato dalla paura di non essere in grado di portarla a compimento. Il terrore del non finito ha ristretto i tempi di sintesi del concetto, riducendo l’idea a pochi tratti saturi di significato tesi all’esaltazione del suo segno nel mondo dei vivi. L’ansia caratterizza la sua arte, in cui traspare, nelle forme echeggianti il primitivismo, l’inquietudine della certezza del non-essere (Coleridge la definì “vita-in-morte”).
Alessandro Di Pietro, invece, propendeva per indole verso la procrastinazione, l’attesa del momento adatto a consacrare la morte, “ballando” sulla propria lapide (un’idea che Di Pietro rappresenta anche e soprattutto in altre sue recenti opere), dissacrando il momento creativo dilatandolo e spezzettandolo anatomicamente. E il momento è giunto proprio quando l’artista si è lasciato “distrarre” dalla stessa fretta del finito che si affanna a raggiungere l’eterno. Ne è derivato un serrato dialogo con se stesso, un monito incredibilmente universale pur nelle eccentriche parole (quasi inconsce, animate dal suono e modernissime nel canto) che compongono un epitaffio tra l’antico e il tecnologico di matrice superstiziosa e spettrale (si potrebbe, di contro a Gabriele, ritenerla una condizione proiettata nella “morte-in-vita”).
A proposito della collocazione delle due opere e della scelta di Assocazione Barriera come location, è ammirevole la sensibilità del curatore Matteo Mottin, che ha ricercato la perfetta simbologia anche nel luogo, che possiede un deposito nascosto, solitamente non accessibile al pubblico (dato il valore delle opere d’arte che conserva).
Le due opere dividono lo spazio perfettamente: ognuna centrata nella metà di parete raggiunta da una fila di pilastri; ognuna illuminata nella stessa maniera dell’altra; ognuna “fluttuante” nel limbo che dialoga con il deposito (porta oltre la quale non è dato conoscere il destino dell’arte, cioè il nostro).
Infine, un’epifania del curatore ha scaturito un sorprendente collegamento tra le opere e, di contro, ha definito un limite fisico dello spettatore: durante un soggiorno a Venezia, Matteo si è ritrovato a fissare, ipnotizzato, la luce riflessa dalle acque del canale che gli impediva di raggiungere la meta prefissata dalla parte opposta della strada (costringendolo a fare il giro). Il complesso armonico ha giovato così dell’intervento di Mottin che ha costruito, perpendicolare ai pilastri, un canale di vetro che passa da una parte all’altra della sala. Metafora, ovviamente, dello Stige; di un corso (d’acqua, di tempo) che ci separa dall’Arte, dalla Verità e quindi dalla Morte (la nostra destinazione). Lo spettatore si trova così “bloccato” dal muretto del canale, lontano dalle opere, costretto a vedersi specchiato e a proiettarsi solo come labile riflesso di sé, attendendo di essere dall’altra parte.
L’esperienza che lo spettatore prova è intima, potente e rischiosamente illuminante; nitida nella consapevolezza dei limiti umani contro il tempo e la fine della vita; chiara nelle intenzioni introspettive e di riconoscimento del singolo artista e del legame di amicizia tra un artista e l’altro, in una reciproca confidenza pur nell’apatia del mondo dei morti. Se ne esce, insomma, migliorati; prematuramente nostalgici; entusiasti nella tragica agnizione; splendidamente sentimentali.
Tiziano e Giorgione
a cura di Matteo Mottin
dal 15 settembre al 2 ottobre 2016
via Crescentino 25, Torino