A pochi giorni dal rilascio della seconda stagione, Netflix ha rinnovato la serie tv Narcos per altri due capitoli. Ecco perché ci siamo affezionati a quel bastardo di Escobar.
di Luigi Affabile – Il brano dal titolo Tuyo interpretato da Rodrigo Amarante, sembra una sorta di ninna nanna, sussurrata all’orecchio di un bambino. Con un ritmo dolce e malinconico, il testo da l’impressione di essere una dichiarazione d’amore di una madre ad un figlio. Beh, nulla di tutto questo. O almeno in parte. Tuyo è la sigla di apertura di Narcos, in cui – se qualcuno ancora non lo sapesse – è raccontata l’ascesa e il declino del più ricco trafficante di cocaina di sempre: Pablo Escobar. Tuyo è un pezzo virale e un urlo nelle vene. L’artista brasiliano ha dichiarato di aver composto il brano pensando al tipo di musica che la madre di Escobar avrebbe potuto ascoltare mentre cresceva il figlio. Vivace e malinconica, semplice e “convincente”.
La serie tv di Netflix è probabilmente il più grande prodotto di questa stagione. I primi episodi sono capaci di creare una dipendenza patologica e il regista Josè Padilha fa capire fin da subito che sarà quasi impossibile disintossicarsi.
Già, perchè Narcos oltre ad essere un concentrato di realismo e di emozioni, è una vera e propria “droga”. L’elemento chiave della serie è la morte. La morte, oltre ad essere l’unica certezza, è la condizione irreversibile che accomuna tutti i personaggi. In questo senso, Narcos non è la solita serie tv sul crimine. Lontana da Blow, Scarface e tanti altri film di genere, Narcos ci porta nell’intimità del protagonista (siamo più altezza Soprano, dunque), mostrandoci oltre alla crudeltà, le paure e le emozioni del Patron interpretato da un magistrale Wagner Moura. Il sottile confine tra bene e male, ci mostra un uomo divorato dal bisogno di mostrare al mondo il proprio potere. Un criminale capace di far saltare un aereo di linea e di tenere in ostaggio il palazzo di giustizia di Bogotà.
La Colombia come protagonista, offesa e torturata dal male
Il vero punto di forza della serie è la storia. Padilha è riuscito ad esplorare e a ripercorrere dal punto di vista storico e generazionale, uno spaccato della cultura colombiana influenzata da quegli anni di sangue e terrore. Una fotografia impeccabile rende quei paesaggi naturali mozzafiato, meno cupi e meno amari, illudendoci per qualche secondo di trovarci davanti ad un documentario di viaggio su National Geographic.
Una storia affascinante, in cui la realtà supera la fantasia…
L’Escobar che incontrerete in questi venti episodi, è un criminale in cui alterna a scatti d’ira improvvisi, momenti di solitudine e di riflessione. Sembrerebbe a tratti quasi di rivedere il Noodles di C’era una volta in America, malinconico e solitario. Se immaginate di ritrovarvi davanti una storia scontata, vi sbagliate di grosso. Il regista lascia lo spettatore da solo, ingarbugliato in quella sottile ragnatela che opprime i sentimenti che si nascondono dietro la maschera umana. Ma è piacevole perdersi in questo cocktail di emozioni.
In questa storia non ci sono cattivi, non ci sono eroi. Persino gli agenti Murphy e Peña scenderanno a compromessi pur di distruggere el Patròn. La magia del racconto è composta da scene terribili, omicidi a sangue freddo e tradimenti. Dall’altra ci viene mostrato un uomo comune, con le proprie debolezze e le proprie paure. Episodio dopo episodio, la serie va avanti a fari spenti, senza dare punti di riferimento allo spettatore. Il doppiaggio in lingua spagnola, per mantenere la veridicità dell’ambientazione, è la vera ciliegina sulla torta. L’elemento decisivo che forse avvicina questa serie al capolavoro.
Un Escobar sognatore, crudele e romantico
Pochi giorni fa è uscito nelle sale italiane il primo film di Andrea Di Stefano, Escobar: Paradise Lost. In poche parole, per chi si aspettasse un’opera biografica, la delusione sarà totale. A differenza del successo targato Netflix, il film è un prodotto diverso dalla serie. I protagonisti, compreso Benicio del Toro nei panni del narcotrafficante colombiano, sembrano spaesati a fronte di una trama sterile e inconsistente. Decisamente diverso dall’Escobar sognatore e crudele, mesto e spietato di Wagner Moura. Un criminale colpito nell’anima, capace di mostrarci sempre il rovescio della medaglia, in modo trasparente e deciso.
Narcos ci presenta il bene e il male a intermittenza, alternandone quasi tutti i lineamenti. Resterete quasi affascinati da quel personaggio e dalla sua fervente vita. Quelle guance paffute, quei capelli ricci, quel sorriso vi faranno quasi simpatia. Ma alla fine della storia, la realtà è l’unica vincitrice e in numeri parlano chiaro: 3.245 omicidi in Colombia tra il 1979 e il 1984. Una vittoria amara.