Da Kandinsky a Pollock: il Guggenheim a Firenze

Alla mostra a Palazzo Strozzi “la Firenze che non ti aspetti”…

Ramon Rodriguez Lioia  –  Se vi capitasse di accendere il televisore, nei giorni estivi, sentireste sempre la solita tiritera degli italiani che, per il gran caldo, finiscono a farsi il weekend al mare, i due passi in montagna, oppure il “giro nelle città d’arte”, prima tappa e meta fissa sempre Firenze e Roma.

Ora, io non saprei dirvi come si stia nella Capitale in questi giorni, ma vi posso garantire che a Firenze fa effettivamente piuttosto caldo, e cercare un attimo di refrigerio nei musei è decisamente una scelta oculata, non solo per darci un momento di sollievo, ma anche per scoprire effettivamente qualcosa di più sull’enorme patrimonio artistico e culturale della città.

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Quello però di cui parliamo oggi è qualcosa di ben diverso dal solito, potremmo dire “la Firenze che non ti aspetti”, che si discosta dal Rinascimento, dai Brunelleschi, dai Donatelli e dai Battisteri che siamo abituati a cercare nella capitale mondiale dell’arte e dell’umanesimo. In questa stagione abbiamo la possibilità – sebbene ancora per poco, quest’articolo compare purtroppo con colpevole ritardo – di avere uno spaccato su un secolo diversissimo, e su una forma d’arte e cultura che tutti conoscono e che pochi comprendono.
Stiamo parlando della cosiddetta “
arte moderna”, stiamo parlando di quel filone di artisti innovativi e visionari del Novecento, stiamo parlando di quel gruppo di artisti accolti sotto l’ala protettrice di Peggy Guggenheim, che troviamo raccolti in una piccola, ma meravigliosa mostra a Palazzo Strozzi a Firenze, “Da Kandinsky a Pollock”, dal 19 marzo al 24 luglio.

Prima di parlare della mostra, ci servono due righe di storia; Peggy Guggenheim è una donna americana, un’intellettuale, una vicina alle avanguardie e ai bei salottini bohémien – prima che andasse di moda dire di esserlo – che conosce e frequenta un sacco di persone del giro. Gente tipo Marcel Duchamp, quello che la stragrande maggioranza di voi conoscerà per questo: 

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Marcel Duchamp, Fontana, 1917

Un giorno – è il 1938, attenzione alle date – la signorina Guggenheim si mette d’accordo con un tizio, Jean Cocteau (uno dei massimi esponenti della cultura artistica e letteraria del Novecento) e inaugura la Guggenheim Jeune. Ma la nostra Peggy è una con un certo fiuto, e permette a una serie di artisti visionari scoperti da lei di esporre, gente come il giovane Vasilij Kandinskij; contemporaneamente chiama anche una serie di pittori già affermati, come un tale Pablo Picasso o il signor Max Ernst (con cui – gossip! – poi si sposerà).
Questa piccola galleria diventa poi un museo di una certa importanza, arricchendosi delle opere di qualche altro artista del secolo, per dirne uno
Salvador Dalì (che oltre ad avere dei buffi baffetti all’insù e ad aver fatto “il quadro con gli orologi che si sciolgono” ha anche fatto altro). Nel frattempo, mentre lei ingrandisce il suo museo, capita quel piccolo incidente di percorso detto “Seconda Guerra Mondiale”. Peggy, che è ebrea, fugge a New York – insieme a una marea di altri artisti e intellettuali. Qui conoscerà un altro degli artisti principali della sua scuderia, Jackson Pollock.

Dopo la guerra, torna in Europa, e si sposta a Venezia, dove espone la sua collezione alla XXIV biennale (è il 1948), quindi a Firenze nel 1949 – dove il sindaco dell’epoca non apprezzò particolarmente “l’arte moderna”, proprio a Palazzo Strozzi, e poi ancora al Museo Guggenheim a New York, nel 1969.

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Image property of the Albright-Knox Art Gallery, Buffalo, NY. Jackson Pollock, Convergence, 1952

Se siete arrivati fino a questo punto dell’articolo senza addormentarvi, e non avete solo guardato le figure, vi chiederete il perché di questa storia; perché la mostra è dedicata precisamente alle scelte artistiche di Peggy Guggenheim, una donna che ha scelto di investire su determinati artisti e di raccogliere le loro opere.
Luca Massimo Barbero, il curatore della mostra, ha scelto per noi oltre 100 pezzi essenziali dalle raccolte Guggenheim di mezzo mondo, comprendenti tutti i nomi che abbiamo già fatto, più ancora
Man Ray, Emilio Vedova, Lucio Fontana, Giacometti, Mark Rothko ed ancora molti altri.

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Lucio Fontana – Concetto Spaziale, Inferno

Nelle nove sale della mostra, potremo seguire il percorso culturale e artistico sia da un punto di vista cronologico che “personale”, esplorando cioè le scelte di Peggy Guggenheim nel tempo: ciò significa anche scoprire e capire quale fosse il senso di queste avanguardie e delle loro ricerche artistiche attraverso il Novecento.

Più nel dettaglio, la prima sala introduce i collezionisti della famiglia Guggenheim, Peggy e Solomon (zio di Peggy); la seconda è dedicata al Surrealismo, la terza esplicitamente a Pollock. Le sale 4 e 5 esplorano l’opera di de Kooning nell’Espressionismo e approfondiscono ciò che era l’arte in Europa in quegli anni. La sesta sala ci introduce al Color-Field, immensi panorami di colore puro, oltre l’interesse per il segno: capofila del genere è Mark Rothko, una delle più grandi intuizioni della Guggenheim che lo scoprì, al quale è dedicata la settima sala. La mostra si conclude con le ultime ricerche artistiche degli anni ’60, fino ad un monumentale Preparativi, di Roy Lichtenstein, con cui il visitatore viene congedato, sicuramente più ricco di prima.

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Preparedness, 1968 by Roy Lichtenstein

Ma la domanda ora è: perché dovremmo andare a vedere questa mostra? Ed ancora prima possiamo chiederci: ma esattamente, cos’è l’arte moderna?

Non si può fare facilmente un riassunto di un secolo di arte moderna senza essere noiosissimi da una parte e fin troppo sbrigativi dall’altra; però si può cercare di parlare dello spirito che essa rappresenta. Torniamo a parlare di storia, e partiamo dalla nozione da libro: l’avanguardia artistica del Novecento è composta da quei movimenti artistici e culturali, spesso connessi fra loro e infinitamente sfumati, nati indovinate un po’ nel Novecento.
Nell’arte, riassumendo in estrema sintesi, possiamo dire che dopo
qualche secolo passato a cercare di imitare la realtà e a coglierne l’aspetto, da un certo punto in avanti si tende a cercare di cogliere la sensazione che la realtà lascia nell’artista e nell’uomo, di riprodurre cioè quanto ci colpisce o ci emoziona; questo, in soldoni, è quello che si chiama Espressionismo, molto eterogeneo nelle forme.

Ora, l’Espressionismo ebbe poi un bel po’ di movimenti collaterali e, diciamo, di “discendenti”, quelle che sui libri si chiamano Avanguardie; abbiamo avuto il Cubismo (Picasso), il Dadaismo, il Futurismo di Marinetti e il Suprematismo dell’arte russa, la Metafisica – che spaziava da De Chirico a Dalì – ed ancora il Surrealismo. Tutti gli artisti coinvolti si trovarono bene o male ad assistere a mostruosi cambi della loro società, dall’introduzione della “macchina” alla guerra alla rivoluzione politica (pensiamo ai russi e allo stravolgimento sociale che subirono nel primo Novecento). A seguire, nella seconda metà del secolo, cominciamo a complicare le cose con l’Espressionismo Astratto, l’Arte Informale, i già detti Color-Field (tutto quello che naviga nel mare dell’Astrattismo), e ancora l’Arte Concettuale, l’Arte Figurativa, e una marea di altre parole.

Dietro questa sequenza di etichette varie, però, ci sono direttamente le opere, da osservare in silenzio, per esempio questo.

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Robert Motherwell, “Elegia per la Repubblica Spagnola”, 1971

Cosa troviamo qui? Un esempio di arte moderna, un esempio di Espressionismo Astratto, soprattutto un fortissimo esempio di quello che intendevo prima per sensazione. Nel nostro caso, un artista, Motherwell, riesce a portare sulla tela, con pochissimo, quello che è il risultato della sua ricerca di senso nella realtà, di significato, di sensazione che la realtà stessa (sempre più moderna, sempre più alienante, sempre più difficile) imprime nell’artista, che la ritrasmette andando oltre l’immagine, oltre il comprensibile, oltre lo schema, oltre quello che i critici chiamano “formalizzazione del segno”, che significa semplicemente andare aldilà delle cose conosciute e convenzionali. La tela viene tagliata, bruciata, dipinta con macchie o totalmente coperta di un solo colore; la tecnica non ha più importanza.

E’ per questo che abbiamo i brividi guardando l’opera di Motherwell nella sua assoluta potenza espressiva, o che rimaniamo ipnotizzati di fronte al “semplice” lavoro di Stella, Miscuglio Grigio: perché siamo andati oltre la forma, e stiamo guardando direttamente la sostanza. E’ per questo che “le coltellate su una tela” di Lucio Fontana non sono due sguarci in una tela, ma sono qualcosa di molto più profondo; in genere, la critica più elementare che viene mossa all’arte moderna è “saprei farle anche io due macchie così”. Ora, chi pensa una cosa del genere, semplicemente, non ha capito la differenza essenziale fra poche macchie di colore a casaccio e poche macchie di colore espresse per un motivo. Siamo tutti d’accordo sul fatto che quest’arte sia difficile da definire criticamente, e che la differenza sia ardua da vedere. Ma se non si può vedere, la si può percepire, nell’intenzionalità di un artista di comunicarci qualcosa. La guerra, la rivoluzione, il suo disagio, il suo secolo. Con questa mostra potremo seguire il percorso (culturale, umano, storico) di una grande, grandissima ospite e conoscitrice dell’arte: Peggy Guggenheim che vi mostra il suo universo, fatto di tanti altri universi (oltreché un sacco di cose sue, ed intendo proprio oggetti appartenuti a lei, tipo le opere d’arte che teneva in casa).

In altre parole, che voi siate appassionati o che non ne capiate un tubo, concedetevi un pomeriggio (la mostra per essere approfondita a fondo richiede almeno un buon paio d’ore) e visitate Palazzo Strozzi finché la mostra rimarrà esposta. Questo perché parlare e descriverla serve a poco, occorre vederla per capire. Dodici euro (più cinque se volete l’audioguida, molto consigliata a chi conosce poco l’argomento) ben spesi; affrettatevi, la mostra finisce tragicamente la settimana prossima.