Lavoro ad arte: un documentario sul cuore industriale di Pianoro

Un incontro tra artisti e industria. Un racconto straordinario di ricerca, esplorazione e interpretazione, nel quale la fotografia e i ritmi del montaggio fondono due mondi lontani. Un documentario affascinante e poetico racconta il progetto di arte pubblica realizzato nella zona industriale di Pianoro, nel bolognese.

di Erica di Cillo  –  Durante la rassegna Art City Cinema, che si è svolta nella Cineteca di Bologna a fine gennaio, un documentario ha catturato l’attenzione di OUTsiders: è Lavoro ad arte, di Marco Mensa e Elisa Mereghetti. Descriverlo in poche parole non è un’impresa da poco. Si basa su un grande progetto di arte pubblica, Cuore di Pietra, che da dieci anni ormai arricchisce il comune di Pianoro, in provincia di Bologna. Lavoro ad arte è un universo, una fetta di mondo, anzi, di due mondi che si intersecano in maniera inaspettata, è una ricerca della bellezza nascosta nei dettagli, nei piccoli gesti dell’artista che riflette e si lascia ispirare dagli operai e dal loro ambiente di lavoro, per arrivare a risultati inaspettati. È poesia, che spesso nasce da incontri inusuali.

Si racconta che un principe mite, lontano e silenzioso, dicesse che la bellezza verrà a salvare il mondo. Così il racconto ci è arrivato.

La regista Elisa Mereghetti ce lo ha raccontato così:

“Il progetto Cuore di Pietra è un progetto di arte pubblica ormai molto radicato a Pianoro. Marco vive lì, ha questo in comune con Mili [Mili Romano, docente dell’Accademia delle Belle Arti di Bologna, ndr]. Avendo già collaborato con lei, abbiamo saputo che il progetto si stava espandendo alla zona industriale: è scattata la scintilla, abbiamo trovato molto interessante il fatto che un progetto artistico andasse a confrontarsi con la realtà dell’industria. Così è nata la ricerca dei fondi, abbiamo avuto un contributo anche dalla Film Commission dell’Emilia Romagna. Lavoro ad arte è il frutto di un dialogo creativo tra noi di Ethnos e Cuore di Pietra, un dialogo durato due anni. E per noi, che volevamo tradurre il tema così particolare del progetto nel linguaggio documentaristico, si è trattato di una ricercasoprattutto visiva, sul come inquadrare gli artisti, su cosa privilegiare. Un progetto lungo e complesso, e ci siamo chiesti come collocarlo per bene senza togliere l’immediatezza dell’azione artistica. Il punto era proprio far vedere cosa succede quando l’artista si ispira a una realtà di lavoro, che cosa salta fuori, quando si incontra anche con gli operai. Era difficile trovare il taglio giusto. Credo che Marco abbia fatto un lavoro molto interessante, dando l’idea di una vicinanza quasi fisica all’artista: anche noi, come spettatori, siamo parte dell’azione, e l’azienda diventa paesaggio. Le aziende vengono viste in una chiave più bella di quella che solitamente siamo abituati a pensare. La potenzialità di tutto il nostro lavoro è raccontare le cose in maniera diversa, creare un altro punto di vista, ed è quello che abbiamo fatto, ad esempio, nella Trilogia dell’Appennino: tre documentari girati nella zona dell’appennino reggiano.”

Il passato sembra essere molto importante per Ethnos. Non un passato nebbioso, di cui avere nostalgia senza però poterlo “toccare”. Un passato, piuttosto, come risorsa preziosa, da conservare e custodire gelosamente perché serve a dare il senso a tutto il resto della vita.

“Si tratta di un punto di vista interessante, che non è particolare di Lavoro ad arte, nel quale c’è un elemento di recupero della memoria, quello del progetto Cuore di Pietra. Abbiamo accolto quello che stava succedendo. Il passato e la memoria, comunque, entrano molto nel nostro lavoro. Siamo partiti con documentari antropologici, quindi andando a scavare nelle tradizioni, nell’evoluzione delle culture, abbiamo lavorato tanto nel sud del mondo e fatto lavori di carattere storico. Abbiamo lavorato anche cercando rapporti tra la memoria e il territorio, è un filo importante, è come cercare le radici, scendere in profondità, quindi andare indietro nel tempo.”

Come cambia il rapporto tra l’artista e la macchina, dopo Lavoro ad arte?

“Questo lavoro ha rappresentato anche la sfida di raccontare i modi diversi di ogni singolo artista di rapportarsi a questa realtà: alcuni hanno voluto entrare direttamente in contatto con gli operai, ascoltare il cuore, ascoltare le loro storie; altri hanno preferito il contatto con i materiali. Questa varietà di approcci è stata, a nostro avviso, molto bella, e credo contribuisca a dare al documentario la dimensione del movimento. Ogni artista ha scelto un aspetto del lavoro ed è partito da lì per una interpretazione personale. Daniela Spagna Musso ha preso dei bulloni e ne ha fatto una catena, una cosa molto astratta ma molto significativa, e poetica. Mona Lisa Tina, partendo dal corpo, è andata a esplorare il territorio. Sicuramente loro hanno imparato moltissimo, non capita tutti i giorni di potersi rapportare a questa realtà.”

lavoroadarte

La fotografia è stata curata da Marco Mensa, mentre tu ti sei occupata del montaggio. Come gestite il vostro lavoro di squadra?

Siamo due soci, attualmente, come Ethnos, e lavoriamo su tutti gli aspetti come coppia creativa: lui si occupa della fotografia, io del montaggio, del lavoro sui testi e sulle musiche. Per me è molto importante il tema del ritmo, delle sonorità, della voce. Lavoriamo così, come co-regia, facendo insieme alcune scelte di interpretazione e taglio, sempre in un dialogo creativo, che questa volta si è esteso anche a Mili e Nando [Nando Briamonte, ndr]. Abbiamo analizzato molto approfonditamente quelle che potevano essere le potenzialità del progetto, che perciò ha richiesto parecchio tempo. Ad orientare questa ricerca stilistica è stata la volontà di focalizzarsi sui dettagli – come scelta fotografica ma anche narrativa – e sottolineare un’interazione quasi intima. Ogni artista è stato ripreso con l’intento di tirare fuori dai suoi gesti non tanto il racconto, ma l’essenza di ciò che in quel momento stava accadendo nella mente. La valorizzazione del piccolo gesto si combina con l’immagine del paesaggio: c’è un micro e un macro. Le immagini girate col drone, nella zona industriale, ci danno un paesaggio stilizzato, quasi una mappa. Sono ricerche visive sviluppate appositamente per Lavoro ad arte, è stata anche per noi una sperimentazione, visto che le tematiche artistiche non sono molto ricorrenti nel nostro lavoro. Ogni documentario ha una storia a sé.

La colonna sonora è stata realizzata dal Conservatorio di Matera: come nasce questa collaborazione?

Avevamo già lavorato con loro, in un’altra produzione ci sono le musiche di Materelettrica, che è un gruppo di giovani studenti, diretti da Fabrizio Festa, docente di musica elettronica. Li ho conosciuti partecipando a un workshop a Matera con l’Associazione Documentaristi Emilia-Romagna [di cui è stata vicepresidente dal 2009 al 2011, ndr]. Inizialmente per Lavoro ad arte si era pensato a una colonna sonora curata dai Fratelli Mancuso, ma avrebbe avuto una impostazione troppo autoriale. Così abbiamo tenuto un loro brano originale nel documentario, e Materelettrica si è occupata del resto, con una colonna sonora che ha un taglio molto elettronico, suoni sintetizzati, e funziona molto bene nell’incastro con l’ambiente industriale. Alcuni brani sono stati composti ad hoc, altri sono stati riadattati. Hanno molte idee da sviluppare, è una realtà con cui collaboriamo volentieri.

Carolina legge libri gialli. È una ragazza che lavora in una della fabbriche della zona industriale di Pianoro. E ci siamo trovate un giorno sulla sua panchina, la panchina dove va a leggere i libri durante la pausa pranzo e mi ha raccontato un po’ di sé, della sua passione per i libri gialli e il fatto di avere un parco vicino alla fabbrica dove lei lavora rende quel luogo, lei lo ha definito delizioso. E quindi guardandomi attorno ho visto la rete che ci divideva con il lago, con delle maglie molto larghe questa rete e ho iniziato questo ricamo. Per me il gesto del ricamo è famigliare perché in famiglia mia madre, mia nonna, le mie zie insomma sono tutte sarte e anche ricamano. Ho usato 80 metri di filo d’ottone. Con il tempo questo lavoro diventerà sempre meno visibile perché l’ottone si ossida e si confonde con il colore della rete, si integra ancora di più con il paesaggio e diventa ancora più intimo.

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