Hecho en Cuba: grafica, cinema y revolución

I manifesti cinematografici cubani degli Anni Settanta raccontano l’epopea culturale e “militante” fiorita nel marasma post-rivoluzionario, capace di coniugare avanguardie artistiche e tradizione popolare.


_di Lorenzo Giannetti  
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Parlare di Cuba è come navigare controvento. Vuol dire confrontarsi con una storia controversa. Travagliata e complessa, ma anche unica e, a suo modo, epica. In bilico tra luci ed ombre, gesta eroiche e soprusi, colpi di Stato e dittature militari, liberazione e repressione. Un’isola dallo spirito indomabile, alla ricerca di libertà, autonomia e indipendenza. Un’isola altrettanto ambigua, alla ricerca di una identità, di un posto nel mondo.
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Lontana dal voler sciogliere i nodi della politica internazionale, la mostra Hecho En Cuba –letteralmente “Fatto a Cuba” – al Museo Nazionale del Cinema di Torino ci restituisce delle pagine precise del tormentato e avvincente romanzo di formazione cubano, catapultandoci nel 1959, a pochi mesi dalla rivoluzione castrista.

Il paese si è divincolato dalla morsa del generale Batista e dal posticcio protettorato statunitense e – scacciati oramai anche i fantasmi del colonialismo spagnolo – Cuba vuole affrancarsi definitivamente dai diktat U.S.A. La spina dorsale dell’isola sembra percorsa dal brivido euforico del cambiamento.

Il fermento culturale e l’afflato politico si fondono in un’esplosione creativa senza precedenti che trova la massima espressione nella grafica per il cinema.

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Gli oltre 200 manifesti dalla collezione Bardellotto in mostra al Museo del Cinema di Torino – alcuni dei quali unici e mai esposti prima in Europa – raccontano la storia della grafica cinematografica cubana dal 1959 fino ai nostri giorni e provano a farci respirare quel clima culturale che – con tutte le contraddizioni e le sfumature del caso – ha segnato una esaltante e forse irripetibile pagina della Storia di Cuba.
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Realizzata con la collaborazione di Nicoletta Pacini e Tamara Sillo (insiders del Museo Nazionale del Cinema) e Ivo Boscariol, Patrizio De Mattio e Francesca Zanutto (rappresentanti del Centro Studi Cartel Cubano), Hecho En Cuba si snoda attraverso la rampa elicoidale del tempio del cinema sabaudo, in un percorso semplice e senza troppi fronzoli ma funzionale e suggestivo. Prima di accedere alla “chiocciola” del percorso espositivo, nel pieno del brulicare di visitatori del Museo, potreste già avere la sensazione di trovarvi lungo una viuzza de L’Avana: un’installazione, posta a ridosso dei grandi schermi, ricostruisce uno scorcio cubano, con dettagli art déco, musica sudamericana e murales inneggianti alla revolutión. Revolutión che – al netto delle armi e del sangue – passa per la cultura.
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Così, tra i buoni propositi di quel Capodanno del ’59 che innescò la miccia della rivolta, Fidel Castro aveva sicuramente quello di plasmare uno zeitgeist cubano creando un arte del popolo e per il popolo. I cubani sembravano essere particolarmente affezionati al buio della sala cinematografica (basti pensare che dagli Anni Quaranta avevano inaugurato più di 300 cinema) e, di conseguenza, i film sembravano il medium migliore per parlare alla pancia del paese.

Con un’intraprendenza effervescente (“l’arte di arrangiarsi”, potremmo dire) la scuola cubana rivelò un talento spiazzante, lavorando in condizioni decisamente poco ortodosse, spesso con mezzi di fortuna e risorse limitate.

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Ai grafici, allora, spettava il compito di sublimare in arte figurativa il minutaggio delle pellicole proiettate, attraverso manifesti, cartelloni e flyer ad alto coefficiente simbolico, capaci di innalzare il gusto figurativo della massa; e ci riuscirono, in circostanze piuttosto singolari. A pochi mesi dall’insediamento di Castro venne istituito l’ICAIC (Istituto Cubano di Arte Grafica e Industria Cinematografica) che “formalizzava” il binomio – da quel momento indissolubile – tra Cinema e Grafica. Ma resta da capire cosa proiettassero i cinema cubani.
Da un lato, in chiave anti-americana (Cuba nel frattempo era diventata una pedina importante della Guerra Fredda) si tentava di non sottostare passivamente ai dettami di Hollywood, sebbene fosse difficile ignorare l’apogeo di grandi registi a stelle e strisce; dall’altro ci si concentrava sul cinema d’autore europeo, orientale e sovietico (da Fellini a Kurosawa passando per Ėjzenštejn) e si provava timidamente ad incoraggiare produzioni autoctone.
In questo senso, le idee abbondavano. A mancare erano piuttosto – c’è bisogno di dirlo? – i soldi. Fu questo il cruccio dei grafici cubani ICAIC.
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Con un’intraprendenza effervescente (l’arte di arrangiarsi, diremmo da queste parti) la scuola cubana rivelò un talento spiazzante, lavorando in condizioni decisamente poco ortodosse, spesso con mezzi di fortuna e risorse limitate. Come funzionava il lavoro nei taller (laboratori) di serigrafia de L’Avana?
Iniziamo col dire che Cuba aveva già una notevole tradizione in materia: fu la prima nazione a pubblicare un intero quotidiano con la tecnica – poi largamente diffusa – dell’offset (si trattava del mensile illustrato Social). Una locandina degli Anni Sessanta nasceva quasi sempre da un bozzetto su di una tavoletta di 16×25 cm, dove il disegnatore inseriva gli elementi essenziali della composizione che aveva in mente (salvo eccezioni le dimensioni effettive sarebbero poi state di cm 51×76).

Un manipolo di grafici barricaderi tentava di opporsi al processo che ci ha portato dritti ai “consigli per gli acquisti” sempre più dozzinali e superficiali dei giorni nostri.

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Del processo di creazione, la mostra mette bene in luce anche il rapporto tra l’estro del progettista e le competenze del tecnico: quest’ultimo – un misto tra un editor ed un commercialista – aiutava l’artista a trovare le soluzioni più originali per realizzare la propria opera nel modo più veloce, economico ed efficace possibile. Mescolando pop art, dadaismo, suprematismo russo ed espressionismo tedesco e lasciando asciugare tutto sulle spiagge del Mar dei Caraibi, la scuola cubana riuscì ad elaborare una sintesi vernacolare di avanguardia novecentesca e tradizione sudamericana, che partendo da un’autarchia al contempo fisiologica e programmatica finì per attirare l’attenzione internazionale.
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Per quanto riguarda le tecniche utilizzate, come detto, si doveva fare di necessità virtù. La mancanza di alcuni colori, ad esempio, era la causa dei bizzarri accostamenti cromatici. Tra collage di testi e ritagli di fotografie, iniziarono ad imporsi composizioni astratte ed espressioniste dalla forte carica simbolica ed emotiva, che rivelavano intuizioni formali lontane anni luce dalla stereotipata cartellonistica degli Anni 40 e 50, quando sui manifesti troneggiavano fotografie manierate con i volti degli attori.
On printed paper
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Quel manipolo di grafici barricaderi tentava insomma di opporsi al processo che ci ha portato dritti dritti ai “consigli per gli acquisti” sempre più dozzinali e superficiali dei nostri giorni (che si parli di prodotti artistici o beni di consumo è uguale) provando a fare una promozione cinematografica che ricercasse il significato e l’essenza (o addirittura la metafora, la trasfigurazione) dei film in questione.
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Quanto sarebbe importante riscoprire il valore della pubblicità come forma d’arte…
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Un altro esempio di ingegno organizzativo e responsabilità morale del circuito cinematografico cubano sono le Unità Mobili, rappresentate e sponsorizzate in diverse locandine ad hoc: si trattava di un servizio di navette che si occupava della distruzione “carbonara” dei film anche nelle zone periferiche e rurali dell’isola, a testimonianza – al netto sicuramente di altre mancanze – della volontà di una diffusione davvero capillare del cinema, non solo nei grandi centri abitati e non solo per le classi abbienti.
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Davvero tutti inoltre potevano godere dei Carteles de cine (cartelloni pubblicitari ai bordi delle strade, affiancati nella vallas de cines), che rivoluzionarono il paesaggio urbano cubano dei Sixties. Stesse prerogative delle locandine standard ma in versione maxi (6 metri di lunghezza x 2,60 di altezza).
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Ma facciamo un po’ di nomi. Eladio Rivadulla Martìnez è considerato il padrino e precursore della generazione “liberata” degli Anni Sessanta: fu lui a stampare l’ormai leggendario libretto-manifesto del Movimento 26 De Julio, gruppo rivoluzionario che pose le basi per la futura revolution. Raùl Martinez e Bachs, sono tra i grafici più attivi e prolifici dell’ICAIC: come molti dei loro compagni accentuano il cromatismo acceso  e l’ironia sferzante della pop art, riprendendone ed enfatizzandone la critica in chiave anti-americana. Il primo poster realizzato per la Cineteca de Cuba è però di Rafael Morante, che – sempre con quel tocco frizzante che caratterizza l’intera produzione rivoluzionaria – utilizza spesso un personaggio caro alla scuola cubana: quel Charlie Chaplin – altro fustigatore della morale a stelle e strisce – che troneggia anche sulle locandine della mostra torinese di Hecho En Cuba e vedrete quindi tappezzare la città fino ad agosto.
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Antonio Fernàndes Reboiro è influenzato soprattutto dalle visioni caleidoscopiche della psichedelia, dunque anche le sue opere sono una esplosione di colori; ma ci sono grafici che utilizzano registri completamente diversi e decisamente più sinistri. Perez Gonzales aka Niko, ad esempio, passa con disinvoltura da un manifesto che sembra uscito dall’atelier di Roy Lichtenstein (Il Caso Mattei) alle tinte (o)scure del poster per Il Gabinetto del Dott. Caligari.
E’ da inserire in questo filone espressionista anche la poetica di René Azcuy Cardenas: anche lui non elimina la tavolozza dei colori dalla sua scrivania ma approda sovente ad un bianco e nero dalla forte tensione drammatica (si vede ad esempio il lavoro pensato per Dodes’ka-den di Kurosawa). Non soloflower power quindi: alcune composizioni fanno pensare più ad una colonna sonora black metal!
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Firmato Morante, il manifesto de Muerte Al Invasor rivela, per così dire, un caso particolare all’interno dell’esposizione. Ispirandosi ad un lavoro precedente di Rivadulla per il film Maledetto Imbroglio di Pietro Germi, Morante si vede costretto ad utilizzare la carta di giornale come supporto per la stampa ma riesce a farne il punto di forza della sua composizione: come degli stencil di cartone, tutti i poster giocano sul contrasto negativo/positivo ed ogni copia è differente, un pezzo unico.

Oggi, la nuova generazione di grafici si forma al ISDI, con un upgrade tecnologico notevole, ma il fascino di soluzioni come quelle di Muerte Al Invasor è immortale, oltre ad essere un prezioso insegnamento per gli studenti di oggi e di domani.
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I sopracitati film di Francesco Rosi e Pietro Germi suggerisco una parentesi sulla presenza delle produzioni italiane all’interno del circuito dell’ICAIC: al di là della poetica sui generis di Federico Fellini, largo spazio era dedicato al cinema italiano politico. In questo senso, non stupisce che a giganteggiare all’estero sia la figura di Gian Maria Volontè, capace di coniugare prove attoriali di valore assoluto e militanza sociale con performance da esportazione del calibro di Sbatti il mostro in prima pagina e Sacco e Vanzetti.
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La mostra, sul finale, si allontana dalla grafica per il cinema in senso stretto per raccontare l’iconografia di eroi nazionali (il Che, ovviamente, ma anche personalità meno conosciute come Martì e Camilo) ecampagne pubblicitarie di sensibilizzazione etica (la mobilitazione pubblica della Zafra, l’educazione al consumo critico e l’attenzione per i diritti umani).
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Hecho En Cuba riesce a innescare un dialogo tra più generazioni di artisti, mettendo sotto lo stesso tetto pezzi di artisti consacrati a livello internazionale disponibili in pochissimi esemplari – alcuni dei quali presenti in musei di prestigio mondiale come il Moma di New York, la National Gallery di Londra, il Centre Pompidou di Parigi o l’Hermitage di San Pietroburgo. E, per fortuna, questi capolavori sono arrivati anche sotto il cielo di Torino. No se pierda! 
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Per maggiori info consulta qui in sito ufficiale del Museo del Cinema.
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