Astoria e San Salvario Emporium uniscono le forze per portare Micah P. Hinson a Torino, sulla Terrazza di Lombroso: una piccola oasi di quartiere, esattamente a metà tra il club di via Berthollet e il bazar di Largo Morgari, che si è rivelata cornice ideale per il concerto del cantautore texano. Una collaborazione coraggiosa (live in orario da aperitivo: praticamente un’eresia per il pubblico torinese) e ben riuscita, culminata in un meritato sold out. E, come di consueto, il menestrello di Abilene ha superato le aspettative.
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_di Lorenzo Giannetti
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Micah Paul Hinson è il giovane più vecchio che conosco: a poco più di trent’anni sulle sue spalle strette e ossute pesano “già” tre vite.
La sua storia ormai é nota, ma val sempre la pena ricordarla. La prima vita: bruciata tra droga, skate e grunge. La seconda, iniziata quasi per caso, imponendosi come uno dei cantautori più interessanti della sua generazione. La terza è quella in cui ha dovuto ricominciare tutto da capo (a partire dallo studio della chitarra) dopo un terribile incidente stradale che lo ha paralizzato per mesi.
Un gatto randagio salvato prima dal rock’n’roll, poi dall’amore. Infine da entrambi.
A distanza di dieci anni, Micah P. Hinson decide di riportare sul palco le canzoni del suo esordio “The Gospel of Progress” in un tour celebrativo che per fortuna non suona come l’ennesima operazione di riciclaggio − autoreferenziale e paracula − di un artista senza idee bensì come una riconciliazione sincera, matura e forse definitiva coi fantasmi del passato.
“Questi dieci anni sono un miracolo”
Anche perché “The Nothing”, l’ultimo disco di Hinson, dimostra che il cow boy texano ha ancora cartucce da sparare, eccome. L’ultima volta, circa un annetto fa nel basement dell’Astoria, si presentò sul palco con la moglie Hashley alla batteria: oggi la sua compagna nonché Musa è in dolce attesa dunque Micah suona in solitaria.
Si avvicina al pubblico con passo claudicante e aria stralunata. Salopette a vita alta, coppola sgualcita, crocifisso al collo, sneakers e bastone da passeggio (gli acciacchi alla schiena continuano anche dopo la riabilitazione): é innegabile che il ragazzo, naïf quanto basta, abbia un suo inconfondibile physique du role. Ma è soprattutto dotato di una sincerità e d’una ironia rare.
Quando non trova il barrè della chitarra proprio accanto alla pedaliera (!) o dimentica qualche accordo si prende in giro da solo – “Don’t worry, it’s always like that” – ma poi inizia a cantare, il pubblico ascolta in religioso silenzio le confessioni a cuore aperto dell’occhialuto Hinson e il tempo rallenta come impantanato nella melma texana.
«Hinson non si limita ad una riproposizione meccanica:
prende per mano i suoi pezzi uno per uno, come vecchi amici, come sopravvissuti»
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Una sigaretta dopo l’altra (“Devo approfittarne quando suono all’aperto” ghignerà), il concerto procede tra musica e aneddoti memorabili. Le perle di “The Gospel of Progress” sono trasfigurate e ridotte all’osso: abbiamo capito che difficilmente sentiremo le canzoni di Micah P. Hinson come su disco, con gli arrangiamenti, il pianoforte, i fiati e tutto il resto – ma va bene così. Perché é evidente che Hinson non si limiti ad una riproposizione meccanica: prende per mano i suoi pezzi uno per uno, come vecchi amici, come sopravvissuti.
Sembra dialogare col sé stesso di allora ma col senno di poi. Alterna ballad dal pathos quasi insostenibile a momenti più ridanciani: è capace di intonare una straziante versione di Close your Eyes e poi partire con lo sfottò ai colleghi Fleet Foxes – “Ne ho visti tanti cavalcare l’onda del successo e poi cadere rovinosamente. I Fleet Foxes, una volta, dovevano aprire un mio concerto ma si sono rifiutati perché nel mentre erano diventati troppo ‘big’. E ora che cazzo di fine hanno fatto?!”.
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A metà concerto, allontanato dopo numerosi tentativi di dialogo il classico tizio su di giri, probabilmente per il troppo alcol in corpo: “Oh, si mettono sempre in prima fila, mai in fondo…” dirà uno stizzito Hinson dopo gli scomposti e molesti tentativi di “interazione” del soggetto in questione. E dire che gli già aveva intimato, scherzosamente, come davanti al bancone di un pub: “Se avessi voluto una sezione ritmica me la sarei portata da casa!”. Questione archiviata in pochi minuti grazie all’intervento del tour manager Francesco Cerroni, di cui Hinson tesserà prontamente le lodi: “Lavoriamo insieme da otto anni: per me è una specie di supereroe”.
Allora Micah continua la sua liturgia domenicale con la chitarra elettrica senza intoppi e malumori, tra rock in punta di piedi, blues zoppicanti e folk da saloon. Lui lo chiama “violent country”:
“Dalle mie parti, questa roba la fanno in ogni cortile”
E al di là delle degli ingombranti paragoni con gli inarrivabili Classici dell’Americana, sposiamo senza riserve questa definizione del suo repertorio e della sua poetica. Anche perché “questa roba” a lui sembra riuscire dannatamente bene − come se la facesse da sempre, come fosse una vocazione − che rimbombi nel suo cortile in Texas o echeggi nel cortile interno di un pittoresco quartiere italiano, coi condòmini attempati affacciati sui balconi, incuriositi e a tratti attoniti di fronte alle stonature di questo sguaiato poeta in canottiera.
“Questi dieci anni sono un miracolo. Grazie di cuore, se non fosse per voi sarei a girare hamburger da qualche parte”.
Beh, in questo 24 di maggio, un modo migliore per festeggiare il compleanno di Bob Dylan probabilmente non c’era.