Caro Club To Club ti scrivo…
…mi sono appena ripreso dalla maratona elettronica dello scorso weekend. Un vero e proprio tour de force. Come si dice dalle tue parti? Bòia fauss!
Ho aspettato qualche giorno a scriverti volendo metabolizzare appieno l’esperienza, al solito totalizzante, di questa quindicesima edizione. Anche quest’anno ti confermi al top tra i festival italiani. Questo é bene dirlo subito perché, sai, va a finire che nell’analisi minuziosa e un po’ nerd delle singole performance si perda di vista il quadro generale. Insomma partiamo dal presupposto che anche quest’anno siano gli altri festival a inseguire.
Combo
Ma partiamo anche dall’inizio, dalle tappe di avvicinamento alla Wonderland elettronica di Torino. Sono da citare almeno le due preview meneghine dei mesi scorsi con FKA Twigs e Run The Jewels: con questi due act internazionali – tra i più interessanti in circolazione – hai rinsaldato l’asse C2C sulla Torino-Milano. Tutto ciò mentre continuavi ad annunciare uno dietro l’altro nomi da farci sgranare gli occhi davanti al pc. Poi è arrivato l’autunno ed è arrivato novembre, ovvero quel momento in cui a Torino, ti conviene avere a disposizione un esercito di cloni in stile Star Wars per stare dietro alla combo Club To Club e Contemporary Art Week.
La città si trasforma in un festival diffuso di elettronica, avanguardia pop e arte contemporanea.
Ora, in questa metropoli futuribile d’autunno, dove “tocca” dividersi tra techno colta a teatro e mostre d’arte in ex carceri c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Il fatto é che – e qui risulterò molto probabilmente antipatico – questo imbarazzo rischia di trasformarsi in frustrazione, di fronte a tutto quello che data l’alta concentrazione di eventi si perde per strada in questo horror vacui di musica e arte. Che ti devo dire, sono per un’assimilazione dell’arte “slow” (che venga fulminato per aver utilizzato veramente questa espressione), diluita in più momenti, ma è un problema mio e oltretutto non riguarda C2C in senso stretto. Del resto, vecchio mio, avevamo già parlato della mia idiosincrasia per i festival cosiddetti diffusi, dove si finisce a vagare – quanto meno frettolosamente – da una location all’altra. Ma tant’è, mi rendo conto per un turista la questione si pone in tutt’altri termini ed è giusto ragionare in quest’ottica internazionale. Come mi ha risposto chi veniva da città diciamo meno frizzanti di Torino: “Ma vaffanculo”. Bisogna scegliere, lo so. Amen. Ma veniamo al sodo dato che della mia agenda non frega a nessuno.
Portami lontano a naufragare via via via…
L’incipit di questo lungo romanzo elettronico che porta il tuo nome è affidato al tuo amico Sascha Ring aka Apparat, che l’anno scorso aveva torchiato la folla oceanica del Lingotto coi suoi Moderat mentre quest’anno si esibisce nella cornice più intima del Conservatorio di Piazza Bodoni, in pieno Centro Storico: nell’avamposto accademico della musica sabauda Apparat ci ha deliziato con le musiche composte per il cinema (tra tutte citiamo la colonna sonora del Giovane Favoloso di Martone). Ricordo che lo avevamo già visto qualche anno fa all’Hiroshima Mon Amour alle prese con una suite musicale ispirata a Guerra e Pace di Tolstoj ma questa volta il risultato è ancora più suggestivo.
Una cosa che ti riesce davvero bene è creare queste situazioni borderline: il giorno dopo il colpo d’occhio dello scrigno del Teatro Carignano durante l’esibizione di Floating Points era surreale e impagabile. Sta funzionando benissimo anche il quartier generale che hai messo in piedi all’Hotel AC al Lingotto, dove praticamente hai trasformato la hall di un albergo in un hub avveniristico e al contempo in una lounge funzionale per addetti ai lavori e non. Nel warm up del mercoledì da segnalare almeno il set di Demonology, side project di Max Casacci e Ninja dei Subsonica. A notte fonda però hai aperto i battenti (e gratis per giunta) della roccaforte principale del festival: l’immenso padiglione del Lingotto. Si parte col turbo, nel segno del sound accelerazionista tanto chiacchierato di quest’anno: le eccentricheSophie e Qt – delle Sailor Moon arruolate dalla PC Music – fanno staffetta con la grime onnivora diMumdance, che apre definitivamente il portale spazio-temporale che dà accesso al Club To Club numero 15.
Epica Estetica Elettronica Pathos
L’assedio al bunker del Lingotto prosegue nelle due giornate successive, le più corpose della settimana targata C2C. Vado a ruota libera, senza seguire tassativamente l’ordine cronologico. A proposito di ordine e tempo però, fammi dire che tu sei stato praticamente impeccabile a gestire le tempistiche delle esibizioni – un ulteriore passo avanti rispetto anche solo all’anno scorso – evitando per quanto possibile l’accavallarsi di più performance e velocizzando parecchio i cambi palco.
Fare aprire le “danze” a Holly Herndon – una delle proposte più “avant” di quest’anno – é stata una mossa azzardata, direi, anche se era interessante creare una sorta di ponte con l’assaggio accelerazionista al femmnile della notte precedente. Dal canto suo la Herndon, che portava in dote le ostiche litanie robotiche del chiacchieratissimo disco “Platform” ha avuto pure qualche problema tecnico (si é scusata con molto garbo e un certo stile grazie l’ausilio dei display che proiettavano i suoi visuals allucinati) e ha accolto la fiumana che iniziava a riversarsi sotto palco con un set più eclettico e abbordabile del previsto.
Quello di Carter Tutti Void è un set che finirà probabilmente nel cono d’ombra di questa edizione, oscurato dall’hype di altre esibizioni, ma si tratta di uno dei migliori visti al Lingotto: i tre cavalieri dell’Apocalisse (alias Chris Carter e Cosey Fanni Tutti dei leggendari Throbbing Gristle affiancati da Nik Void dei Factory Floor) ci trascinano in un gorgo techno lasciandoci addosso un senso duraturo di malsana gioia. Lo stesso ghigno mefistofelico che ci appiccicano in volto Lorenzo Senni (che chiude la spirale accelerazionista del weekend), Andy Stott (grossomodo stratosferico anche se forse ricorderemo più a lungo il set dell’anno scorso col progetto Millie&Andrea in tandem con Miles Whittaker dei Demdike Stare) o i droni pestilenziali di Furtherset.
Tutt’altra atmosfera per la giovane e acerba Tala (una via di mezzo tra Kelela, Fatima Al Qadiri e M.I.A.) e per lo sposalizio mediorientale hipster edition di Omar Souleyman. La presenza dell’atipico soulman siriano, eroe della dabke da dancefloor divenuto beniamino indie, era stata oggetto di discussione alla vigilia del C2C e si è confermata per quello che è: un divertissement coadiuvato da un notevole spargimento di sudore. La kefia più famosa del West si esibisce quasi in contemporanea con Four Tet, che ne é stato produttore e ambasciatore nel mondo. Un Four Tet che di certo non deve dimostrare niente a nessuno ma mi è sembrato procedere un po’ col pilota automatico.
Non il migliore ma forse quello che ha avuto il maggior appeal su pubblico, il set di Jamie XX è un caleidoscopio di generi, che denota la furbizia di un producer che – proprio come C2C – ormai conosce bene sia il mondo del clubbing che il pubblico indie; e sa coccolarli entrambi, come quando fa esplodere il Lingotto sulle note di Everything in Its Right Place dei Radiohead.
Non lascia un segno indelebile invece il set di Oneohtrix Point Never, tuttavia uno dei più suggestivi a livello visivo, con due schermi laterali (uno inizialmente non funziona ma la combo poi è notevole) e dei magnifici fasci di luce intrecciati. In forma smagliante invece Nicholas Jaar e Jeff Mills. Il primo prepara una performance pensata ad hoc per C2C in bilico tra live e dj set e con un coefficiente danzereccio a tratti inaspettato: sulle prime battute irretisce il pubblico con suadenti melodie al pianoforte, poi passa alla disco vintage, dopo dà il colpo di grazia con fendenti più techno. Più volte il set sembra giunto al capolinea per poi ricominciare ancora più prepotente. Jaar like a boss. Che dire invece di Jeff – The Wizard – Mills? Veterano inossidabile, quest’uomo è una garanzia e la sua techno sciamanica é sempre un’esperienza trascendente che vale il prezzo del biglietto. Inattaccabile.
Il premio simpatia lo vince sicuramente l’irsuto Jack Garrett, a metà tra Chet Faker e Ed Sheraan, col suo vocione caldo e un patchwork elettronico e acustico. Anche Todd Terje é uno capace di strapparti un sorriso all’ultimo appello di un esame da 30 crediti: mi ricordo che aveva fatto muovere il culo a tutti i rapper cattivissimi degli MTV Days alla Reggia di Venaria e con il suo bagaglio di soul cosmico e dance alla brillantina dà l’impressione di trovarsi a suo agio (e farti sentire a tuo agio) dove lo metti lo metti. Per stare nella stessa stanza con Prurient invece conviene avere il porto d’armi e me ne ero accorto qualche mese fa quando era passato da queste parti con il progetto Vatican Shadow: techno al napalm per il K.O. tecnico che ci fa sventolare bandiera bianco almeno fino all’indomani.
Una cosa, un’altra cosa, che sei riuscito a fare molto bene in questi anni é fidelizzare il pubblico e creare (educare?) una community attenta e curiosa. Non modaiola, non solo almeno, ma moderna. Uscendo dal recinto dell’elettronica in favore di più trasversale concetto di avant-pop sei riuscito – percorso che mi pare abbia trovato il suo zenit con l’esibizione del Maestro Battiato l’anno scorso – a plasmare il “genere Club To Club”, un concentrato di contemporaneità dove lo scarto tra club e laboratorio è sempre più esiguo. Quel luogo dal quale ha senso mandare la cartolina di SALUTIleitmotiv del battage pubblicitario di quest’anno.
Ed è al crocevia tra tutte le esperienze (ma sai che sbagliando avevo scritto speranze?) che hai metabolizzato in questi anni che si inseriscono i due “outsider” di questa edizione #15.
Il guercio
Thom-fucking-Yorke, ladies and gentlemen. Ebbene, lo hai fatto il colpaccio eh, Club To Club? Insieme ai Battles (per altri motivi, ci arriviamo), il demiurgo dei Radiohead è indubbiamente il nome che ha cambiato il volto di questa edizione del festival, e in prospettiva di tutte le altre a venire: un “colpo di mercato” al quale era praticamente impossibile rispondere a tono da parte di chiunque, in Italia. Hype, flusso di interazioni social, numero di biglietti staccati si sono moltiplicati in maniera esponenziale quando il “signor genere non ancora definito” é comparso in cartellone. E alla prova del palco? “Tanto rumore per nulla”, ha sbottato qualcuno. L’antico adagio shakespeariano è oggettivamente troppo severo ma concordo sul fatto che la performance di Yorke – la prima volta a Torino! …che, voglio dire, cinque alto in ogni caso – non sia stata memorabile.
Thom Yorke si presenta in città col progetto Tomorrow’s Modern Boxes, in tandem col suo storico produttore e collaboratore Nigel Godrich. Si tratta di un set che è stato davvero centellinato e conta pochissime apparizioni live nel mondo. Tuttavia per quanto mi riguarda Thom Yorke fa forse l’unica cosa che THOM YORKE non deve fare: risultare insipido. Intendiamoci, la performance è godibile e le remore non sono legate né di una mancanza di cassa dritta (come malignano alcuni) né all’aspetto performativo in sé: Yorke é preso bene (dice di percepire un’atmosfera unica a Torino e si dimena per tutto il palco) e il set é coadiuvato da visuals incredibili a cura di Tarik Barri, ma, semplicemente, il tutto non quaglia. Tra l’altro, volendo, la performance è piuttosto dinamica, varia: si cambia spesso registro, musicalmente parlando, ma, come un nerd in laboratorio, Yorke sembra voler mettere in mostra tutti i trucchi del mestiere, risultando più indeciso che eclettico. C’è tempo anche per fare un passo indietro, al precedente lavoro The Eraser, ma l’inerzia della performance rimane grossomodo la stessa. Come sempre, è un’opinione.
Yorke era sicuramente IL nome col quale festeggiare al meglio il traguardo di questi 15 anni. Perché vedere Thom Yorke in cima al cartellone di C2C rappresenta il coronamento di un percorso per te, quel percorso che ti ha portato sintetizzare quell’ibrido futuristico di elettronica, rock e pop di cui si accentava prima, per di più a 15 anni esatti dall’uscita di quel capolavoro di Kid A, che a suo tempo sparigliò le carte tra dancefloor colto e rock guitar oriented, IDM e alt-rock – non per primo certo, ma indubbiamente fu pietra angolare in tal senso.
Azzardo però una richiesta, anzi, lancio una sfida: perché non portare in Italia tutta quella scena americana di hip hop meticcio così difficile da vedere da queste parti? Io avrei barattato volentieri Thom Yorke sottotono con un Kendrick Lamar al top, sai?
La Di Da Di
Se, quasi per affinità elettiva, Thom Yorke era il padrino più indicato per celebrare il tuo percorso dagli esordi ad oggi, i Battles sono stati coloro che hanno allargato il bacino di utenza non tanto in termini di quantità bensì di trasversalità. Una band che si avvicina in tempi dispari al dancefloor e una festival con un concetto anarcoide di pop ed elettronica? Detto-fatto e quest’anno quella fetta di amicizie con cui normalmente non ho mai discusso di C2C mi ha chiesto della “discoteca” di Lingotto. La tempesta perfetta fa sì che i Battles arrivassero in città con il loro disco più danzereccio (La Di Da Di) e avessero in canna una performance da standing ovation, che trova apice nella filastrocca dadaista di Atlas ma tiene alto il ritmo per un’ora e mezza buona. John Stanier sembra partorito per gemmazione dalla sua drum machine e i Battles fanno breccia nel cuore di un pubblico che sembra davvero non aver più paura di abbattere le barriere tra i generi. “Ci vediamo per un afterparty nella mia camera d’albergo!” – chiosa Ian Williams dietro al suo ciuffo – “é la 665, proprio accanto alla 666” continua. I cultori della Torino esoterica ringraziano.
Mine vaganti
Se un sorprendente Shackleton tira fuori l’artiglieria pesante sul Main Stage, i terroristi sonici di The Sprawl non fanno prigionieri nella più raccolta saletta adiacente. Non tutti i colpi vanno a segno ma il set ha il respiro epico delle grandi battaglie. La combo che offre la colazione però fa ancora meglio: Not Waving e Powell ci tengono letteralmente in ostaggio tra le pareti del cubo metallico della Sala Gialla, che diventa un buco nero attraversato dalle correnti elettriche dei due producer di casa Diagonal. Impossibile resistere alla loro techno anarchica, sporca, ipnotica e drogata. Oscar Powell in particolare crea dipendenza. Se dovessi scegliere un’unica cartolina da recapitare al mio indirizzo dalla “vacanza” di C2C sarebbe sicuramente quella di Powell che gira su stesso come una trottola davanti alla consolle mentre parte Insomniac, con buona pace di Steve Albini.
Local heroes
Un’altra cosa che voglio sottolineare è l’attenzione per il chilometro zero, a livello musicale. Hai sempre monitorato la scena nazionale, con un’attenzione particolare al circuito torinese – come testimonia la compilation The Italian Wave, una specie di manifesto autarchico di gusto, etica ed estetica Club To Club. E i frutti si vedono: Stump Valley e Vaghe Stelle sono act che faranno molto parlare di sé, così come tutta la combriccola della Gang of Ducks. Altro che bogia nen!
Dans Salvario, dans…
La domenica però è ancora C2C a cantar Messa. Come l’anno scorso il festival si riversa per le vie di San Salvario, in concomitanza con l’emporium che mensilmente prende vita all’ombra della tettoia di Piazza Madama Cristina. Tra l’acquisto di una carabattola di design, un cappellino vintage e l’ennesima pinta di Carlsberg tuonano la techno esotica di Nigga Fox (impagabile vederlo suonare – ancora una volta tuttogratis – dietro il murales ODIA LA LEGA) e le bordate dub di Kode9. Proprio durante il live del fuoriclasse di Glasgow l’impianto va in corto e la musica si ferma (probabilmente si tratta di un sovraccarico generale: anche altrove viene a mancare la corrente). Il tempo di una sigaretta e di un tour per le viuzze del quartiere al ritmo dei soundsystem mobili allestiti su camionette (thumbs up per la selezione di Solid Blake!) che la festa ricomincia e al netto dei problemi tecnici il veterano Kode9 – ormai cittadino onorario per Torino – conclude un set dinamitardo.
Il primo della classe, ovvero, a caval donato non si guarda in bocca ma…
Al di là di ogni possibile analisi e dietrologia sulle performance in senso stretto anche quest’anno hai spaccato i culi, per usare una terminologia internazionale. Hai migliorato diverse cose quest’anno. Come dicevamo, fatta eccezione per la mezz’ora buona di anticamera per sua Maestà Thom Yorke, i cambi palco sono stati velocissimi. Anche l’acustica nell’immenso Padiglione del Lingotto – indubbiamente un Leviatano non facile da affrontare per i tecnici del suono – ha creato molti meno problemi rispetto agli anni passati.
Poi. La Sala Rossa dello scorso anno era qualcosa di simile ad un forno a microonde (anche se ti dirò che si respirava una brezza marina in confronto alla Boiler Room milanese…) mentre la Sala Gialla di quest’anno era ben climatizzata, oltre che più spaziosa. L’acustica invece è stata pazzesca in entrambe le situazioni ma quest’anno era davvero top. Certo, per raggiungere l’area bisognava fare quel lungo corridoio un po’ spoglio che sembrava conducesse al Gate di Caselle Aeroporto ma l’effetto una volta entrati era davvero notevole.
Un’altra cosa che si evidenziava lo scorso anno era il “minimalismo” dell’allestimento visivo del festival. In tal senso la stoccata arriva soprattutto se si ha in testa il tuo diretto competitor: il rOBOT di Bologna, che però – va detto – nasce legato a filo doppio alle Arti Visive. Non è che mi aspettassi i fuoco d’artificio ma ecco da questo punto di vista forse i criticoni potranno trovare ancora facile appiglio. Ok, nel corridoio c’erano un paio di bancarelle (ah, carina la t-shirt ufficiale col bacio da cartolina) e il cocktail bar a metà strada. Fuori c’era addirittura quel simulatore di realtà virtuale (forse qui chiedi troppo al clubber in piena maratona elettronica). Però, nonostante due maxi-schermi, il padiglione continua a sembrare il parcheggio dietro casa mia e magari qualche distrazione tra un set all’altro non sarebbe malaccio. Questa é una cosa molto torinese secondo me: magari in cartellone ci manca solo Gesù di Nazareth però dell’allestimento ce ne battiamo un po’ il cazzo, perché alla fine conta la musica. Vedi tu eh, per quanto mi riguarda mi tengo il cubo di cemento, chiudo gli occhi e ascolto i top player in line up. Ti dico solo di pensarci perché le ore che tra una cosa e l’altra si passano al Lingotto non sono poche…
Detto ciò, già non vedo l’ora che sia il prossimo anno.
Everything in Its Right Place?
Perdonami per tutto quello che sto dimenticando o che non sono riuscito a vedere o a capire. Brindo ad altre notti insonni.
XXX
SALUTI DA OUTSIDERS