Dopo l’exploit di The Jinx, un’altra ottima serie “true-crime”: Making a Murderer crea dipendenza e riscrive le regole del documentario moderno.
di Davide Mela – Qualche tempo fa ero su Netflix e avevo voglia di guardare un documentario. Tra le proposte della piattaforma, non tantissime ma neanche poche rispetto al genere, spiccava una serie documentaristica di nome “Making a Murderer”, rapidamente diventata culto in America e perfino oggetto di accesissimi dibattiti da parte degli spettatori, che tentavano di “andare oltre” la stessa ricerca e narrazione svolta dai documentaristi.
Dopo il primo episodio, ero ufficialmente infognato. Non c’era modo di staccare gli occhi di dosso dalla serie o di pensare di distillare lentamente gli episodi: la curiosità e la pulsione verso la scoperta che provavo nel “trangugiare” le puntate, una dopo l’altra, erano quasi senza precedenti. E in gran parte la cosa era dovuta alla tremenda “morbosità” dell’operazione, qualcosa di simile a una versione super-raffinata di “Porta a Porta” con Bruno Vespa che fa piangere in diretta Anna Maria Franzoni. “Making a Murderer” mi sembrava scorretto, ricattatorio, emotivamente fazioso… e dannatamente addictive. Dovevo continuare. Dovevo sapere. E alla fine della fiera, mi sono sentito come si sente chiunque passi un paio d’ore davanti ai plastici di Bruno Vespa: sporco e indignato.
Making a Murderer è un’opera complessa, estremamente ben confezionata: è fondamentale vederla con la consapevolezza che si tratta di un documentario a tesi.
La drammatica storia di Steven Avery, condannato nel 1985 per violenza sessuale e poi rilasciato dal carcere dopo 18 anni quando viene dimostrata la sua innocenza, è quel genere di materia perfetta per essere scavata, approfondita e narrata attraverso le maglie e i tempi dilatati di un documentario seriale. La gestione dello scorrere del tempo è perfettamente in linea con una ricostruzione degli eventi sempre chiara e ben presentata, dove ogni situazione e momento-chiave viene illustrato con taglio giornalistico e “cinematograficamente passionale” allo stesso tempo.
Making a Murderer è costruita perfettamente in linea con la narrativa tipica del “viaggio dell’eroe”.
Sul gigantesco debito che lo Stato deve a Steven Avery per la sua ingiusta detenzione in carcere pesano malagiustizia, una polizia corrotta e condizionata, una comunità particolarmente schierata e ciò che appare un palese accanimento ai suoi danni. La tesi dell’accanimento delle forze dell’ordine verso la famiglia Avery è ulteriormente suffragata dagli eventi successivi alla liberazione di Steven: mentre questi avanza una causa legale per ottenere un risarcimento per gli anni di carcere scontati ingiustamente, Steven Avery viene coinvolto in un caso di omicidio e arrestato come principale indiziato.
Le prove contro di lui appaiono schiaccianti, e tra queste è compresa una testimonianza/confessione del nipote. La difesa sceglie tuttavia di seguire la strada dell’innocenza, a più riprese dichiarata da Steven: la tesi, proseguita anche dal documentario, presenta apparenti evidenze che dimostrano come Steven Avery sia in realtà stato incastrato dagli stessi individui contro cui stava intentando causa: gli esponenti più influenti delle forze di polizia della località del Michigan in cui abita.
Making a Murderer è costruita perfettamente in linea con la narrativa tipica del “viaggio dell’eroe”. Nel corso dei suoi 10 episodi, vediamo il protagonista interagire con i suoi affetti e la sua vita quotidiana all’interno di un universo normale; lo vediamo mantenere i nervi saldi e la volontà lucida mentre è in prigione per qualcosa che non ha commesso. Lo seguiamo quando gli viene regalata l’illusione della libertà e portata via nello spazio di poco tempo; entro la fine del primo paio di episodi, qualunque spettatore dotato di un’anima si sentirà spaventosamente triste per la sorte di Steven Avery.
Vorresti che la fusione di Erin Brockovich e Perry Mason spuntasse fuori e proteggesse l’imputato dagli stronzi in divisa che stanno cercando di fargli passare il resto della vita in galera.
Il fatto è che, da normali spettatori, adoriamo le storie di persone comuni che combattono contro un sistema corrotto che cospira contro di noi; un nemico strisciante e tremendamente più potente di noi; e il potere narrativo di Making a Murderer è tanto forte da trasformare anche il più scettico degli spettatori (come il sottoscritto) in un potenziale cultore delle teorie cospirazioniste.
La pubblica accusa si è schierata con fermezza contro i documentaristi, colpevoli, a loro dire, di avere tralasciato importanti dettagli sul processo. La verità è che è impossibile sapere se Avery sia innocente o colpevole, ma i 10 episodi presentano una storia in maniera apertamente schierata e diligente allo stesso tempo, evitando di lasciare troppi dubbi sulla questione della colpevolezza o innocenza.
Come in ogni storia che si rispetti, c’è un eroe che deve combattere la sua battaglia e gli autori Laura Ricciardi e Moira Demos scelgono di perseguire una precisa “versione della verità”. Nel caso di Making a Murderer, siamo vicini al capolavoro, sia per i meriti del grande lavoro svolto dai documentaristi sia per l’intrinseco fascino di una storia ai confini del surreale, che nessuna fiction avrebbe saputo raccontare meglio.