Sleaford Mods: nel tugurio di Nottingham

Divide and Exit: il manifesto del duo più pericoloso d’Inghilterra? 

di Matteo Monaco  –  Tra i meriti (fin troppo) riconosciuti alla musica anglofona, volendo chiudere un occhio sui baronetti “più famosi di Gesù Cristo” e su quelle dozzine di movimenti che si sono propagati dall’isola di Sua Maestà con le movenze e i tratti di tanti virus culturali, c’è da riservare una casella ad un elemento artistico che è piccolo, ma non di poco conto: la pronuncia, o più specificatamente, quel misto di r ringhiate e di tono cantilenante che è propria della prima ondata punk britannica. E allora, se al citofono di casa Strummer non risponde più nessuno, e se all’indirizzo dei Lydon troviamo ormai un panciuto englishman che ha lasciato le battaglie di gioventù anche per levigare le consonanti, nel tugurio di Nottingham a nome di Jason Williamson e Andrew Fearn – tra una lattina di lager schiacciata sul muro e l’altra – la lezione è invece appena iniziata. Il computer scassato di Fearn da una parte, a lanciare un turbine cupo di accordi punky (su una base ritmica che è debitrice dell’alternative hip-hop albionico), mentre dall’altra è Williamson a bruciare le barre vocali prendendo a schiaffi il lavoro (che non c’è), la vita sociale (annaffiata d’alcol e di disillusione), la noia come violenza sopita dei sobborghi.

Pericolosi? Sì, ma solo perché funziona. Più dell’Austerity Dogs di cui riprende l’anima affamata, e molto più dell’acerbo esordio di Wank, questa terza fatica in studio combina gli addendi dei mods (di nome, ma non di fatto) di Nottingham in un’alchimia che fa alzare di scatto dalla sedia, facendosi largo gli escrementi pestati di Liveable Shit, il manifesto post-Suicide e punk-hop di Tied Up in Nottz, l’Angst inesplicabile – e forse celebrata dalla stessa urgenza espressiva – che fluisce con (una stavolta candida) naturalezza dalle note di Tweet Tweet Tweet.

Reazionari, proletari, umanisti, contro i progressisti dello spreco e i commedianti della sicurezza sociale, i salottieri dell’élite. Ad aggiungere fascino a questo Divide and Exit, allora, è quella capacità di trovarsi in quel punto del palcoscenico dove lo Zeitgeist accende i suoi riflettori: non per scelta, o come omaggio all’era del libero arbitrio e delle identità liquide, ma per genealogia, e per una dipendenza culturale che fonda se stessa nell’ethos. Si fa presto a dire che gli inglesi ci hanno raccontato la crisi con un dischetto così, con un fulmine a ciel sereno (sullo sfondo della grigia monotonia dei nostri contestatori arty, Lo Stato Sociale in testa) che resterà capitolo estemporaneo e – forse – insuperato di un disagio eco(nomi)-sociale che rimembra la Thatcher e tende a scagliarsi contro Bruxelles. Si aspetta, invece, per capire se la bolla di disobbedienza (così opposta, ma così simile a quelle finanziarie) verrà ricordata come la culla simbolica degli Sleaford Mods, o se – da iniziale volano culturale del talento del duo – si mostrerà, sul ciglio del suo scoppio, come loro implacabile carnefice.

 

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