Once upon a time, Ennio Morricone

di Isabella Parodi – A cosa penso quando sento nominare Morricone?
Alle distese desertiche degli spaghetti western, a una giovane ballerina ebrea nel retro bottega di un bar, a un cinema siciliano dove un bimbo impara la settima arte, alla crudele Italia di Bertolucci, agli assassini efferati del primo Dario Argento…
Dietro al nome di Ennio Morricone si irradia una mitologia ormai con vita propria, che richiama all’istante una certa idea di perfezione formale e personalità, per l’uso unico degli strumenti musicali e dei cromatismi annessi e la perfetta unione di genio artistico e sapienza tecnica.
Musicista, radiofonico, orchestratore, compositore cinematografico. Uno di quei nomi che tra il ’60 e l’80 furono protagonisti della cosiddetta età dell’oro del cinema dello stivale, quando per vari motivi (che ormai non sussistono più, ahinoi) riuscivamo a tener testa a Hollywood e a ispirarla, anche, proprio in quei generi narrativi tradizionali così tanto americani (giallo, horror, noir, thriller e poliziesco).
C’era Morricone a mettere molto di tutto ciò in musica, divenendo in fretta il più noto nello sconfinato mondo musicale internazionale, braccio destro dei registi più apprezzati in assoluto e autore di oltre cinquecento colonne sonore per il mondo del cinema.
Molti premi, moltissimi, ma solo di recente l’ambito oscar alla carriera, ricevuto direttamente dall’ex collega Clint Eastwood davanti ad una folla in visibilio (al fondo la simpatica vignetta di Fausto Gilberti).
Difficile parlare del genio arrivati a questo punto, dopo anni e anni di indimenticabile musica, a partire da quegli anni ’60 in cui è iniziato a sbocciare…

In musica non si inventa nulla, tutto quello che era possibile creare e concepire è già stato fatto da Bach.
Ennio Morricone


C’ERA UNA VOLTA… IL WESTERN

Certamente non nuovo alla musica, ma ancora timido nel mondo del cinema, Morricone deve la sua fortuna alla conoscenza del nostro altro big Sergio Leone, ex compagno di classe, che dal 1964 lo consacrerà a icona del western all’italiana.
Sì, perché nonostante la permanenza nel mondo del western sia durata pochissimo (poche decine di film), il suo nome in qualche modo resterà sempre incollato a quel mondo brullo, arido e crudele fatto di uomini grezzi e senza scrupoli, di paesaggi caldi e ancora incontaminati, di lunghe pause e primi piani che non lasciano scampo, dei glaciali occhi azzurri di Clint Eastwood e dei primi vagiti del capitalismo americano.
Una partnership cinemusicale che forse non ha eguali, dove musica e immagini si amalgamano per bene a fare da sfondo a quell’America primordiale in cui la modernità era alle porte e i primi treni sferragliando portavano con sé tutta l’essenza dell’incombente Novecento.
A cominciare dalla “trilogia del dollaro” (Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto e il cattivo) Morricone si fa conoscere per l’uso innovativo della chitarra, moderna e solenne, che nei primi due film altro non è se non un preludio al capolavoro musicale del capitolo finale.
Ne Il buono, il brutto e il cattivo (1966) l’ululato più famoso del mondo echeggia per le vallate desertiche, quasi uscente dalle fauci di un coyote che non smetterà di urlare mai, simbolo dell’infinita ferocia del west. E poi una tromba, vitale e solenne, (strumento prediletto di Morricone) a vincerlo. Elemento cardine della narrazione, il soundtrack si destreggia tra i tre uomini, incarnanti i peggiori vizi umani (avidità, viltà, crudeltà) in un gioco di armonie e contrappunti, ossessivo ma mai fastidioso, compagno di un west torchiato dalla guerra di Secessione.

Così hai scoperto che dopotutto non sei un uomo d’affari.

Solo un uomo.

Una razza vecchia.

Pochi anni più tardi arriva il capolavoro assoluto del western all’italiana: C’era una volta il west(1968) è più melodramma che “action movie”, in cui i miti arcaici di amore e morte riemergono dal dimenticatoio andando a screditare odio e violenza, sempre e comunque coi mezzi di un vero western.
Meno iconico e commerciale dei precedenti, rispecchia tutta la durezza della vita nel far west, filtrata dalle esperienze dei tre personaggi principali: Frank (Henry Fonda) crudele sicario, Cheyenne detto “Armonica” (Jason Robards) il criminale buono assetato di vendetta, e una vedova (la splendida Claudia Cardinale), unico personaggio femminile degno di nota del western di Leone. Per ciascuno di essi Morricone ha pensato una musica, unico vero elemento caratterizzante in una narrazione dove le parole sono poche e non così importanti.
Sarà uno struggente coro di donne per la vedova, che dietro allo sguardo fiero e tutto d’un pezzo di una donna che ne ha viste troppe rivela una sensibilità e dolcezza tutta femminile; e per Armonica, cowboy forte, granitico ma dall’animo generoso, è proprio un’armonica tagliente a suonare, quella che egli stesso usa per annunciarsi ai nemici, in una melodia lenta e strisciante come un serpente del deserto.

Con C’era una volta il west inizia la più intima e profonda trilogia del tempo, che prosegue con Giù la testa (1971) dove alle sparatorie si affiancano temi forti come la rivoluzione (messicana, in questo caso), l’amicizia, che come da copione si crea tra personaggi nemici/amici, e le divergenze tra le classi sociali. Il soundtrack è un leggero fischiettio, corredato ancora da cori di donne che richiamano il capitolo precedente e melodie che già preannunciano quello finale.

E.. C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA

Noodles, cos’hai fatto tutti questi anni?

Sono andato a letto presto.

Più di dieci anni di fatiche bastano a firmare il capolavoro? Sì, per la coppia Leone-Morricone, che nel 1984 toccarono il punto più alto delle rispettive carriere con uno dei migliori film della storia, C’era una volta in America. Quasi quattro ore di western metropolitano, dove l’epica parabola esistenziale dei protagonisti trova anima e corpo nelle strade della New York dei gangster, tra violenza, morte, amicizia, tradimenti e sesso, con un superbo De Niro (Noodles) di nuovo alle prese con quel ruolo da fuori legge che gli rende così bene.
La colonna sonora diventa culla dell’intera vicenda, con la sua indimenticabile forza evocativa e poetica, resa versatile dal gioco di strumenti diversi. L’epopea tragica è divisa in tre tempi, dove il presente è dappertutto e da nessuna parte, e il futuro è una nebulosa indefinita. E così negli anni ’20 quando i protagonisti sono solo dei delinquentelli adolescenti che bighellonano per le strade del Lower East Side, il tema principale Childhood memories è dolce e spensierato, introdotto dal flauto di Pan (amatissimo da Morricone) e portato avanti da allegri toni swing. C’è ancora innocenza, ma il tempo delle scelte è in agguato e (come la morale del film insegna) ognuno è responsabile del proprio destino.

Negli anni ’30 i protagonisti ormai adulti e divenuti gangster si accodano ai tanti criminali arricchitosi col proibizionismo, e tutta la durezza di una vita fatta di odio e scelte sbagliate è capeggiata dal tema Once upon a time in America, un alito orchestrale leggero ma malinconico; e come dimenticare i dolcissimi violini di Deborah’s theme, tutto dedicato all’oggetto dell’amore malato e impossibile di Noodles, unico spiraglio di luce in un’esistenza violenta dove per il vero amore non c’è spazio.

E’ solo nel ’68 che Noodles cresce e diventa veramente uomo, ormai vecchio e stanco di lottare, quando torna con la mente e con il corpo al suo passato mentre stanzia alla fumeria cinese d’oppio.
A questo punto, un geniale dubbio: storia vera o solo il delirio narcotico di un vecchio qualunque?


IL DARIO ARGENTO PRE-GOBLIN

Strano ma vero: c’era una volta un altro Dario Argento prima che arrivassero i beneamati Goblin a farla da padroni. La filmografia pre-Profondo Rosso, ancora gialla rispetto all’horror successivo, vede un prodotto argentiano diverso, più noir e meno stregonesco. Era Ennio Morricone l’ex braccio destro del maestro del brivido, e questo basta a dimostrare come Argento la sapeva lunga per vendersi al meglio.
Per la trilogia animalesca del collega,Morricone dimostra grande flessibilità musicale, adattandosi magistralmente ad un genere per lui ancora alieno e che in pochi anni sarebbe diventato il suo nuovo campo da gioco. Il suo tocco, da solenne ed epico quale era, si fa inquietante e sinistro, non così dissimile dallo stile che i Goblin avrebbero portato avanti.
Per L’uccello dalle piume di cristallo (1970) c’è una nenia infantile cantilenata, agghiacciante, che riporta quasi alla ninna nanna di Rosemary’s baby e al suo figlio del demonio. Uno stile già largamente sperimentato con Leone, che trova poi maggiore energia negli sfoghi free jazz classicheggianti diCorsa sui tetti, angosciante, affannoso, che puzza già molto di Goblin. C’è già quell’effetto di straniamento, senso onirico e morboso di perdizione tipico delle atmosfere del regista, così come gli effetti sonori al cardiopalma di cui i Goblin faranno tesoro (vi ricorda niente la cantilena infantile di Profondo Rosso?).

Del successivo giallo-thriller Il gatto a nove code (1971) non si può scordare la dolcissima accoppiata flauto e pianoforte della Ninna nanna in blu, e lo stesso anno in Quattro mosche di velluto grigio (che solo ora abbiamo l’onore di riportare in patria) le atmosfere si fanno sempre più da brivido, con gli immancabili cori femminili e la giostra maledetta di un carillon sinistro. I titoli, con quella tastiera pazza, velocissima e le deliranti urla roche, non possono che invocare il prog rock dei successori.
Reunion tardiva per Argento e Morricone nei più recenti La sindrome di Stendhal eIl fantasma dell’opera, decisamente da dimenticare, e non per demerito del secondo.


GLI “INTOCCABILI” DI MORRICONE

Con gli anni ’70, inizia la carrellata infinita di collaborazioni con cui riceve il marchio definitivo di compositore per polizieschi all’italiana, thriller e noir. Un ritrattista a tutto tondo della nostra Italia, messa sempre in qualche modo a nudo per l’estero con l’intervento di registi italiani e non.
Nel ’76 si firmava un altro filmone, il Novecento di Bertolucci che consacrò il talento del regista. Classicismo americano e realismo tutto europeo fusi insieme in un’epopea in due atti, dove la lotta di classe filo-proletaria (la famosa locandina col Quarto Stato di Pellizza da Volpedo già diceva molto) viene portata avanti da una musica epica, da battaglia, gloriosa.
E dopo vagonate di nostrani poliziotteschi, il maestro torna al brivido ancora una volta con La cosa (1981), l’horror fantascientifico con cui John Carpenter contribuì al terrore tutto anni ’80 grazie ai mostruosi trasformismmi della creatura dei ghiacci (in realtà già erede dell’Alien di Scott). Sound minimal, pulsante, poco orecchiabile ma assolutamente perfetto, immobile come il ghiaccio.
E ancora, dopo C’era una volta in America, nell’87 l’abbiamo trovato di nuovo alle prese con un gangster movie anni ’30, gli Intoccabili di Brian De Palma, stavolta a braccetto con la leggenda di Al Capone e il traffico illegale di alcohol: film acclamatissimo, eppure colonna sonora non delle più memorabili, più cedevole alla suspense commerciale che alla consueta scelta musicale molto ricercata.
Ma niente paura, in un anno si può sempre tornare in carreggiata. Nell’88 un altro capolavoro indelebile, il Nuovo Cinema Paradiso  con cui inizia la collabrazione con il nostrano Giuseppe Tornatore. Nessuno poteva essere immune alla tenerezza degli occhi scuri pieni di speranza del piccolo Salvatore, che in una sala di proiezioni in un paesino in Sicilia scopriva il “paradiso del cinema” insieme al suo amico-mentore Alfredo. E non potevamo non commuoverci per la splendida colonna sonora, forse la numero due in un’ipotetica (e impossibile) top di Morricone, che ancora adesso ci fa scendere i lacrimoni confermandosi maestro di emozioni.
E anche nel successivo La leggenda del pianista sull’oceano (sempre con Tornatore) è la sua musica a parlare direttamente al cuore, con quell’incipit delicato all’arpa e quell’abbozzo di jazz che culmina nella dolcezza infinita dei violini, ondeggianti come il mare su cui da tutta la vita naviga il protagonista.

Molto altro ci sarebbe da dire su quello che è stato (e continua ad essere) uno dei più grandi orgogli italiani sul piano artistico, stimato dai registi del passato come da quelli presenti. Il Tarantino malato di western che per Kill Bill vol 2 e Bastardi senza gloria ha (come ama dire lui) “preso in prestito” alcuni tra le sue migliori composizioni, è solo uno dei tanti che ancora oggi ama rendere omaggio al genio di Morriocone.
Un genio che per il momento si sta rilassando, dopo tanti anni di lavoro. Legittima stanchezza? Calo (sacrosanto) di creatività e inventiva? O forse, solo indolenza (ancora sacrosanta) di lavorare per un cinema italiano che non è più in alcun modo quello di una volta?

 

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