George Harrison – Living in the material world

di Isabella Parodi – L’avevamo lasciato con Hugo Cabret questo inverno, ora Scorsese ritorna in tutt’altra veste, quella già ampiamente consumata (e bene) di regista di musica impegnato a rendere onore ad alcune delle più importanti personalità della storia del rock. Ci aveva già dato dentro con L’ultimo Valzer in onore dell’ultimo live del gruppo The Band,  No direction home, tributo a Bob Dylan, e Shine a Light, rombante resoconto della carriera dei Rolling Stones, grande amore del regista. Ma il legame con la musica per lui non resta confinato alle pellicole meramente musicali: che siano gli epici gangster movies all’italiana, i kolossal anni zero o gli ultimi capolavori d’intimismo, la colonna sonora è sempre un tutt’uno con l’immagine, mai banale strumento di decorazione.
E così per uno e un solo giorno (chissà poi perché…) giovedì 19 aprile, nelle sale italiane è stato proiettato il suo documentario sulla vita di George Harrison, personaggio su cui Scorsese lavorava fin dagli anni ’70 e che in quasi quattro ore di filmati riprende vita con un’intensità incredibile. La mano di Scorsese si sente poco ma dato il genere non si rimpiange granché, mentre salta all’occhio l’altissima qualità del documentario: non era cosa semplice restituire ad un pubblico innamorato la personalità di un artista immortale come Harrison, ma Scorsese ci riesce alla grande, costruendo una bio-pic che più completa non si può e intelligentemente inserita nel tessuto storico del secondo ‘900.
Un personaggio ambiguo, perennemente diviso tra un carattere sensibile e introverso e un’instancabile voglia di emergere. Il film ben lo tratteggia, suddividendo in due parti la sua storia: il periodo Beatles e la successiva carriera da solista. Nella prima, il soggetto paiono più i Fab Four che la loro chitarra solista: scelta eccellente, perché per i Beatles era insensato parlare di singoli componenti. Il gruppo era un tutt’uno, una partnership musicale più unica che rara, dove l’amicizia contava più del resto. Fu lutto mondiale infatti, per i milioni di fans sfegatati, quando il gruppo si sciolse. Harrison già da tempo meditava di imboccare una strada sua, quando più che per gli altri quattro il richiamo della cultura induista gli imponeva un cambiamento di rotta. Il bisogno di autonomia e di esprimere se stesso, senza dover più sottostare a quell’atteggiamento autoritario e da superiori che spesso avevano Paul McCartney e John Lennon, fece il resto.

Beatles.

Nel periodo solista, Scorsese punta il faro sulle aspirazioni dell’artista (già coi Beatles aveva composto) e nello stesso tempo i grossi limiti. Meno commerciale degli altri tre, Harrison sfruttò al massimo la collaborazione con l’amico Ravi Shankar, musicista indiano che gli insegnò a suonare il sitar e una nuova filosofia che nella musica identificava una via per raggiungere dio. Dall’ateismo iniziale (molte furono le polemiche contro la “blasfemia” dei Beatles, che Scorsese non manca di riportare) Harrison come gli altri tre, aveva abbracciato quella religiosità spirituale fondata su misticismo e meditazione che tra gli anni ’60 e ’70 si diffuse così bene tra i giovani di tutto il mondo.
Scorsese segue la carriera del chitarrista dai primi successi di All things must pass del ’70, album eclettico e sorprendentemente acclamato dal pubblico, il celebre concerto di beneficenza in Bangladesh, Living in the material world (il disco più socialmente impegnato dell’artista), l’ultimo Somewhere in England, fino alla sua piccola carriera di cineasta, senza dimenticare il doloroso passaggio per l’assassinio di Lennon.
Un’infinità di foto e video inediti di grande valore, interviste ad amici e parenti (oltre che Paul e Ringo) e spezzoni di apparizioni celeberrime sullo schermo, accompagnano quest’affascinante ri-scoperta di quello che malignamente veniva definito “il terzo Beatle”, fino alla sua tragica fine. Scorsese dimostra ancora di essere un grande ritrattista, facendo slalom pulito e indolore tra i momenti di gloria di una vita assai intensa e i suoi attimi più dolorosi, restituiti con grande garbo da un montaggio superbo e dalle toccanti testimonianze. Le lacrime di commozione di Ringo Starr mentre parla degli ultimi giorni in malattia dell’amico, dietro i mitici occhiali da sole e quell’irresistibile faccia da duro, parlano chiaro.

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