di Isabella Parodi – Dall’omonimo romanzo di Michael Cunningham, la storia di tre donne lontane nel tempo e nello spazio, eppure indissolubilmente legate.
La scrittrice londinese Virginia Woolf (una Nicole Kidman spoglia della sua algida bellezza ma all’apice recitativo) negli anni ’20 scrive il romanzo Mrs Dolloway mentre immersa nelle verdi campagne inglesi, sconta la convalescenza di una forte depressione. Trent’anni dopo la fragile Laura Brown (Julianne Moore), infelice casalinga anni ’50 incinta del secondo figlio, legge il libro e si immedesima nella protagonista fino a contemplare il suicidio. Nel 2000 Clarissa (Meryl Streep), una moderna signora Dolloway, deve organizzare una festa per l’ex amante Richard, malato di aids.
Tre donne che per motivi diversi, sono costrette a un mal di vivere avvolgente. Una pessimista prospettiva Leopardiana unita all’ennui di Baudelaire della noia e dell’apatia esistenziale in un vortice autodistruttivo già protagonista in Mrs Dolloway, esempio di stream of consciousness dei più intensi: il fluire di sensazioni e pensieri senza sosta nella mente di una donna insofferente alla vanità di un’esistenza tutta di facciata. Un’onda continua trasferita sullo schermo non solo grazie alle incredibili protagoniste (vera essenza del film) o ad una sceneggiatura burattinaia efficace, ma soprattutto per il pianoforte di Philp Glass, compositore americano già pratico di colonne sonore e ormai giunto a maturazione artistica.
La melanconia struggente di fondo, ossessiva e ipnotica, è come un flusso continuo senza riposo, su cui si staglia cristallino il pianoforte durissimo e dolce insieme, come un’onda capace di trasportare sugli scogli taglienti di esistenze senza via d’uscita e nello stesso tempo sulle morbide spiagge di nuovi sentieri possibili, luminosi. Non rifiuto, ma disperata ricerca della vita e della felicità. Eppure “non si può trovare la pace, sottraendosi alla vita” e insieme, c’è il forte bisogno di restare, per far felice chi ci è accanto. Ma nessuna delle tre in realtà, lo farà.
Alcuni punti altissimi: in Dead things si tocca il tema della morte, spiegata con poesia ad una bambina che la vede per la prima volta sul corpo inerme di un uccellino. Che cosa succede quando si muore? “Si torna nel posto da dove si è venuti”, ma ce lo siamo dimenticati; in I’m going to make a cake la dolce Laura vuole preparare una torta per il compleanno del marito ma non ci riesce. Il pianoforte si fa tetro, sulla scia cupa del “fare sempre feste per coprire il silenzio”; la conclusione coi due suicidi in Escape! racchiude il senso del percorso delle tre donne. Una melodia triste, eppure c’è speranza in essa. Quella nel gesto di Virginia, di “guardare la vita in faccia e amarla per quello che è, e poi metterla da parte.” Perchè alla fine ciò che dura per sempre è altro. “Per sempre gli anni, per sempre l’amore, per sempre le ore…”
The hours, lo spleen narrato dalla musica
