Giorgio Voghera tra psicanalisi, letteratura cosmopolita e spirito ebraico

Con una scrittura tersa, confidenziale e dal tono documentaristico, ne “Gli anni della Psicanalisi” l’autore introduce il lettore nel milieu triestino dei primi decenni del secolo scorso. Senza dimenticare i volti degli esponenti di spicco del panorama culturale dell’epoca – da Saba a Svevo, fino a Weiss, Bazlen e Fano –, ricordati in una raccolta di dieci saggi pubblicati da Edizioni Studio Tesi (Edizioni Mediterranee).

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_di Roberta Scalise

«Trieste è stata un crocicchio di molte civiltà, è stata la porta attraverso la quale molte correnti di pensiero europee – o magari mitteleuropee – sono entrate in Italia. L’abbiamo inteso dire tante volte, che quasi dubitiamo sia vero. Ma quella corrente che, nei primi anni dell’altro dopoguerra, è discesa da Vienna a conquistare l’Italia passando per Trieste – la psicanalisi, intendo dire – più che una corrente è stato un ciclone. Ragazzo, ho vissuto nell’occhio di quel ciclone, in una relativa calma personale; ma tutti gli adulti che vivevano attorno a me: genitori, congiunti, amici, conoscenti, ne sono stati letteralmente travolti.»

Trieste, primi decenni del secolo scorso. Il clima scientifico e culturale è fervido e brulicante: una nuova disciplina scuote gli animi degli studiosi e li conduce a porsi degli interrogativi inediti, in grado di eradicare convinzioni annose e di riconsiderare la psiche umana nella sua complessità. Il “ciclone” ha iniziato a svolgere il suo corso: la psicanalisi giunge in Italia e reca con sé immagini, teorie e concezioni rivoluzionarie. Effettuando il suo ingresso dalla porta d’onore: Trieste, appunto. È qui che le teorie psicanalitiche si plasmano, prendono forma e si diffondono in tutto il Paese, con una «violenza estrema» determinata dalla personalità del suo “tutore” italiano: Edoardo Weiss, allievo di Freud ed esponente di spicco del clima psicanalitico triestino, di cui fu, a tutti gli effetti, il promotore.

E proprio a Weiss è dedicato il primo dei dieci stimolanti saggi de “Gli anni della psicanalisi”, la sequela di interventi redatti dallo scrittore e giornalista – anch’esso triestino – Giorgio Voghera tra il 1967 e il 1977 e da poco riuniti in un volume pubblicato da Edizioni Studio Tesi. Intento dell’autore – figlio del matematico Guido, noto per il romanzo “Il segreto” – è quello di ripercorrere gli anni della sua prima giovinezza, osservandoli mediante i volti di alcuni dei più celebri letterati e artisti del secolo scorso, esponenti del periodo di massimo splendore della cultura triestina. A popolare le pagine del testo vi sono, infatti, i vividi ricordi relativi a Umberto Saba, Giorgio Fano, Roberto “Bobi” Bazlen, Giulio Camber Barni e lo stesso Edoardo Weiss, amabili frequentatori della dimora dei Voghera, ma anche le memorie circa Italo Svevo, Virgilio Giotti, Vittorio Bolaffio, i fratelli Carlo e Giani Stuparich e molti altri, non “vissuti direttamente” da Giorgio Voghera ma rinvenuti nei tratti che li contraddistinsero e li resero protagonisti del panorama locale e nazionale.

Nel tratteggiare le peculiarità artistiche e personali di tali figure, la scrittura di Voghera appare tersa, confidenziale, autentica, e ha il dono di condurci, con tono elegante e documentaristico, nelle stanze delle sue reminiscenze, nei salotti del suo passato, nei luoghi che hanno segnato la sua crescita e il contestuale rapporto con i grandi fautori della scena letteraria – e non solo – del Novecento. Uno stile che, dunque, ci immerge con maestria, e col tocco lieve del rimembrare, nel brulichio dell’epoca, inoltrandoci nel milieu triestino tra le due guerre e nelle abitudini, nella quotidianità e nelle “fissazioni” dei suoi personaggi principali.

Dice bene, a questo proposito, Giuseppe Petronio nella sua prefazione, descrivendo i saggi raccolti come «[…] tutto a un tempo, inestricabilmente, di memoria e di critica: confessione di sé, ma nella veste pudica del ritratto di altri, autobiografia sotto forma di biografia». Narrando le personalità e i mutamenti culturali che lo circondavano, infatti, Giorgio Voghera svela, con discrezione e, talvolta, timidezza, il suo vissuto e le sue emozioni nella veste di “osservatore privilegiato” di un sussulto artistico in fase di transizione, che avrebbe profondamente mutato il clima letterario, sociale e spirituale non solo di Trieste, ma dell’intero Paese.

Voghera ci restituisce i suoi ricordi e li magnifica, rendendoli patrimonio universale mediante la sua opera letteraria e rendendoci, così, partecipi di quell’intrico di umanità che ha lasciato una traccia indelebile nella storia della letteratura, triestina e italiana.

Ma facciamo un passo indietro e torniamo al discorso iniziale. Com’è noto, Edoardo Weiss ebbe una grandissima influenza su alcuni dei maggiori letterati locali, per la portata delle teorie freudiane di cui si fece divulgatore e il conseguente, tellurico, cambiamento che – come si accennava – queste comportarono a livello culturale ed esistenziale. Qual era, però, il rapporto che intercorreva tra psicanalisi e letteratura, e in quale modo la prima ha plasmato la seconda, soprattutto in questo ambiente? E, nello specifico, quali erano le peculiarità della narrativa triestina, tali da renderla così dissimile e originale rispetto a tutte le altre?

La prima motivazione si può rintracciare nella sua posizione strategica, tanto cara alle nazioni che, nei secoli, la conquistarono. «La letteratura triestina – spiega, appunto, Voghera – si è arricchita in seguito a certe aperture verso aree culturali straniere che non erano facili in altre regioni d’Italia», prima tra tutte quella tedesca. Il «cosmopolitismo» della città consentiva, così, alla letteratura nata nella sua culla di opporsi al provincialismo tipico del nostro Paese e di «assumere una posizione d’avanguardia», interiorizzando e facendosi mosaico sia delle produzioni narrative classiche dei paesi con cui veniva a contatto, sia delle tendenze artistiche più moderne.

Ed è proprio qui che si innesta la corrente psicanalitica, con le sue innovazioni e molteplici sfumature. Caratteristica principale della letteratura triestina era, infatti, quella di porre in primo piano il contenuto, il «fortiter sensisse», il quale doveva possedere «di per sé qualche cosa di significativo e di universale, sia pure in senso non assoluto». Ne deriva, quindi, che la forma fosse una mera «ancilla substantiae», un’ancella “al servizio” di una trattazione vera, onesta e seria, particolarmente propensa all’autobiografismo e all’approfondimento psicologico. Vittima, quest’ultimo, delle influenze kafkiane e delle «teorie freudiane, [qui] intese come uno strumento introspettivo rivolto ad una più approfondita ricerca del vero», espresse al massimo grado nel capolavoro triestino per eccellenza: “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo. Di qui, anche la tendenza a «dare gran peso all’espressione della propria infelicità individuale», assunta come «simbolo ed esempio dell’infelicità umana generale». Motivo per cui Trieste è stata definita, spesso, una «città leopardiana».

A questo crogiolo di ispirazioni e sfaccettature si affianca, poi, uno dei tratti maggiormente distintivi della letteratura triestina dell’epoca: lo spirito ebraico. Quasi tutti i maggiori esponenti della scena culturale locale erano, infatti, ebrei o immersi in quel clima religioso, e, in quanto tali, portatori di un certo «particolarismo» capace di pervaderne anche le opere. Ne consegue che il contributo che essi diedero alla narrativa locale fu notevole, in particolar modo per quanto riguarda quel caratteristico «psicologismo» che fu, in seguito, acuito dall’avvento della psicanalisi. «Nella loro storia secolare – spiega, a tal proposito, Voghera – gli ebrei hanno potuto sopravvivere soltanto se hanno saputo esercitare costantemente l’autocontrollo; e per controllarsi bisogna conoscersi, bisogna saper guardare profondamente in se stessi – e quindi negli altri». Ma tutti gli atteggiamenti umani appaiono provvisori e relativi, e, di conseguenza, divengono insoddisfacenti, pertanto «l’abitudine alla sofferenza è diventata, almeno nei migliori di loro, un desiderio di farsi interpreti del dolore del prossimo» e a comprenderne, nel profondo, le azioni.

Un po’ come accade anche nei saggi di Giorgio Voghera, sempre attento a delineare i moti dell’animo dei suoi antichi interlocutori e a indagarne cause, derive e sfumature. Commovente, da questo punto di vista, il ricordo che l’autore riserva a Saba, nominato più volte nel corso del volume e vera e propria figura di riferimento della sua adolescenza, soprattutto per lo stretto rapporto che legava il poeta al padre Guido. La tendenza all’approfondimento psicologico di Voghera trova, infatti, terreno fertile nel racconto di una poesia “rifiutata” di Saba – “Bianca” – di cui lo scrittore riporta alla memoria le emozioni scaturite, i raccordi con la propria esperienza d’amore e la delusione nel non vederla, poi, figurare nella versione definitiva del “Canzoniere”. Qui, la scrittura di Voghera tocca la sua acme ed espone le sue prismatiche potenzialità: quelle di un ritrattista “umano” che, a partire dalla “forma esteriore” dei suoi soggetti, giunge, con cortesia e delicatezza, al sostrato emotivo ed esistenziale degli stessi, scandagliandone meandri poco noti o aneddotici.

In questo modo, Voghera ci restituisce i suoi ricordi e li magnifica, rendendoli patrimonio universale mediante la sua opera letteraria e rendendoci, così, partecipi di quell’intrico di umanità che ha lasciato una traccia indelebile nella storia della letteratura, triestina e italiana.