“L’istante largo”: storia di tre madri e di un bambino speciale

Sara Fruner ci regala un romanzo intenso e cosparso di dolore, narrato da un adolescente, Macondo, contraddistinto da uno sguardo lucido e sorprendentemente intelligente. Che, attraverso le sue vicende e le sue “indagini”, offre le coordinate per una densa riflessione sulla genitorialità e sulle sfumature dell’affetto, al di là del sangue e della biologia. Il volume è il debutto alla prosa della scrittrice trentina, edito da Bollati Boringhieri.

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_di Roberta Scalise

«Maia, Consuelo e Doriana divennero inseparabili. […] Macondo erano loro. Ho sempre pensato che nel libro di Márquez il paese di Macondo sia più uno stato metafisico che uno spazio topografico. Una specie di malinconia, una sensazione di solitudine e insoddisfazione. Quello stato d’animo, lo conoscevano anche loro tre. A volte scendeva su di loro e le fiaccava, le privava della loro energia infantile, lasciandole spossate. […] A volte scende anche su di te. Macondo è tante cose.»

Macondo è orfano di tre madri che non ha mai conosciuto. A scandire la sua vita da quindicenne, gli impegni scolastici, il basket, vecchie e nuove conoscenze, i pomeriggi con «la Bea» – amica di sempre e amore segreto –, la letteratura, la musica e le tipiche perturbazioni dell’adolescenza. Ma, soprattutto, le carezze di un rapporto speciale: quello con la nonna Rocío Sànchez, pittrice cilena di fama internazionale e tutrice del ragazzo.

Il loro dialogo quotidiano è, infatti, costituito solo da parole scritte e riferimenti artistici: tra i due, l’abissale silenzio causato da un carcinoma dell’orofaringe, che ha privato la donna delle sfumature della sua voce. A resistere, tuttavia, vi sono quelle emotive e cromatiche, rese attraverso dei foglietti – gli «scontrini» – sui quali Rocío annota con fervore domande, suggerimenti e risposte personalizzate ai dubbi del nipote, spesso corroborati o esplicati con riferimenti ai colori della sua e altrui pittura.

Ad abitare l’interiorità di quest’ultimo vi sono, però, quesiti che la nonna non può – ancora – soddisfare. Il motivo è racchiuso in una scatola conservata nel suo studio «inespugnabile», al cui interno sono custoditi tutti gli stralci del passato inesplorato di Macondo. Ed è proprio a questo agognato scrigno di ricordi che vuole giungere il ragazzo, protagonista dell’intenso romanzo di Sara Fruner, “L’istante largo”, esordio alla prosa della traduttrice e poetessa trentina edito da Bollati Boringhieri.

Rocío e il suo «chiquito» hanno stipulato un patto: la scatola non potrà essere aperta fino a quando Macondo non avrà raggiunto la maggiore età. Per un ragazzo dalla spiccata curiosità e da un’intelligenza fuori dalla media (per l’esattezza: «profondamente plusdotato di livello 5», in base alla Scala di Wechsler), però, tre anni di attesa sono davvero troppi. Macondo decide, così, di non tergiversare e di dare avvio al suo piano: approfittare della personale che la nonna terrà a distanza di tre mesi per “conquistarne” lo studio e svelare, finalmente, il contenuto della scatola conservata per decenni con estrema cura e discrezione, scoprendo, in tal modo, i segreti del suo passato.

Sulla scia dei suoi beniamini letterari Sherlock Holmes e Martin Mystère, quindi, il «chiquito» attuerà la sua articolata strategia di indagine, costellando le sue giornate di supposizioni e piccoli indizi che, attraverso inaspettate scoperte e parentesi di inevitabile sconforto, lo condurranno alla conoscenza della verità circa le proprie origini e le sue tre madri, Maia, Consuelo e Doriana («MaConDo»).

L’adolescenza, tuttavia, non è un mero reticolato di gioco e spensieratezza. Fin dai primi passi nell’esistenza di Macondo, infatti, emerge con insostenibile chiarezza il velo di furioso dolore che serpeggerà nel corso di tutto il testo. Un tormento che contiene in sé non solo diverse coordinate geografiche – il Cile natio di nonna Sànchez, cui sono seguiti gli anni in Italia, l’esperienza newyorchese e il ritorno nella penisola –, ma anche molteplici coordinate esistenziali, cospargendosi come un manto vischioso negli interstizi della vita di ciascun protagonista del romanzo.

Proprio come nei racconti di Márquez cui il nome del ragazzo intende rendere omaggio, a essere nucleo nevralgico della narrazione non è il singolo, bensì l’intera costellazione familiare in cui questo è immerso, con le vicende, i contraccolpi, le pieghe e le risacche del tempo che la attraversano. Il quindicenne non è il solo a serbare dolore e rabbia incontrollabili. A condividere il suo destino, appunto, vi è anche la stessa Rocío, piegata da lutti costanti e mute sofferenze, e «la Bea», scissa tra un padre lontano e una madre che ha perso se stessa. Senza dimenticare, poi, la «tribù», che, insieme alla nonna, si prende cura di Macondo ed è costituita da personalità tanto autentiche quanto frantumate, alla perpetua ricerca di un equilibrio che, pur apparendo all’orizzonte, rivela il suo carattere asintotico e fuggevole. Cui si accostano, con delicata reverenza, le madri di Macondo: i tre “fantasmi” che dominano la narrazione con i loro volti evanescenti e sconosciuti, e appaiono discrete nelle tele di Rocío, nei ricordi di coloro che ne conservano memoria e nelle parole inespresse che aleggiano nell’abitazione di Macondo, prendendo corpo negli oggetti e nelle fotografie che lo circondano.

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Il risultato è, quindi, un romanzo corposo, viscerale e stratificato, nel corso del quale la linea narrativa principale si scardina e si dipana in una vera e propria ramificazione di storie, vissuti e interiorità. E, con lei, lo stile, che si presenta generalmente incalzante, ma anche sinuoso e duttile, in quanto capace di “vestire” di un ritmo peculiare ciascun personaggio e, in particolar modo, i due protagonisti principali. Quando a parlare è Macondo, infatti, le parole rivelano un guizzo di curiosità, stupore, talvolta sconcerto, e sono sempre mosse dalla volontà di porsi “alla ricerca”, per scoprire se stessi e i propri passi. Una genuinità che ricorda un po’ Holden Caufield – altro eroe letterario dell’aspirante scrittore Macondo –, per la purezza dei suoi ragionamenti e la spontaneità espressiva che lo contraddistinguono.

Quando a “scrivere” è, invece, Rocío, le parole si fanno più grevi, il respiro diviene corto per l’irrequietezza dei suoi racconti e l’atmosfera si tramuta in intensa e commovente. Ed è proprio qui che si evincono le radici poetiche di Sara Fruner: nei paesaggi interiori che dipinge con maestria di particolari e immagini evocative, nel “realismo magico” dei sogni e di alcuni frammenti di lucidità, nel dolore sordo di un colore e del suo stendersi sulla tela. E, soprattutto, nel denso e tacito riflettere che accompagna ogni movimento, pensiero e discorso del romanzo: quello sulla parentela e sulle molteplici forme della genitorialità, con cui Fruner pone in rilievo l’importanza e l’autenticità dei legami familiari al di là del sangue e della biologia.

Perché, come direbbe nonna Rocío, «io non credo nel sangue, credo alle persone». Soprattutto quando queste sono dominate da un unico colore: pantone amore.