[REPORT] Gli “Spiriti” di MITO SettembreMusica 2020 tra sospensione e futuro

Tra incertezze e ostacoli, Milano e Torino non rinunciano alla celebre rassegna musicale, quest’anno dedicata al tema degli spiriti.

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_di Silvia Ferrannini

 
Il ritorno all’arte dal vivo quest’anno ha un suono diverso. Inedito, in un certo modo igienico, e perciò ancor più impattante, soprattutto perché si dipana tra due delle città più prostrate dalla pandemia. La ripartenza sorge dalla paura del silenzio e della vicinanza: eppure la quattordicesima edizione di MiTo SettembreMusica si è fatta, con tutte le prescrizioni e i limiti del caso, valorizzando così il desiderio di resistere, di proporre, di nutrire gli spiriti con il potere benefico della musica di qualità.
Come sempre accade, la mancanza pone in risalto la necessità e con essa tutti gli strumenti atti a contrastare l’incertezza. Sale a capienza ridotta dunque, difficili prove telematiche per orchestre e cantanti, costo dei biglietti ridotto, assenza di ospiti stranieri, timore sempre vibrante del contatto fisico, ma i numeri sono importanti e significativi: molti concerti (il 63% di quelli in programma) hanno fatto registrare il tutto esaurito; nelle due città sono stati emessi 18.450 biglietti, senza dimenticare, peraltro, il pubblico radiofonico, presente e attivo grazie alla Rai, main media partner di MITO.
«Fino a qualche mese fa – afferma il direttore artistico Nicola Campogrande – sarebbe stato inimmaginabile realizzare un festival come questo. Senza orchestre a pieno organico, senza artisti stranieri, con i teatri a capienza ridotta, i musicisti distanziati, i concerti concentrati in poche sale da sanificare ripetutamente.
Ma la gratitudine degli ascoltatori, la fiducia del pubblico che cresceva di giorno in giorno e soprattutto la passione e l’intensità con la quale i musicisti hanno fatto vivere i nostri concerti, hanno reso questa edizione indimenticabile. Il desiderio, la necessità di ascoltare musica dal vivo non sono stati spenti dalla pandemia; e mi piace pensare che questa incredibile edizione di MiTo possa rappresentare un segnale, un bel segnale, per tutto il mondo della musica».
Si può dunque affermare che il bilancio è nettamente positivo, così come evidenzia la Presidente Anna Gastel, «la sfida è stata grande ma si è fatta di necessità virtù. La chiusura delle frontiere ha portato all’offrire ancor di più a molti straordinari musicisti italiani la possibilità di esprimersi, dopo tanti mesi di inattività sui palcoscenici prestigiosi di Milano e di Torino per un Festival che non rinuncia alla sua caratteristica cifra di festival della musica allo stesso tempo popolare e colta».
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In seno al Festival sono stati 460 gli artisti che faticosamente hanno saputo ricostruire un nuovo spazio di espressione; moltissime le maestranze coinvolte, che a diverso titolo hanno collaborato alla realizzazione della rassegna; indispensabile l’usuale sostegno degli storici sponsor di MiTo, Fondazione per la Cultura Torino e Fondazione I Pomeriggi Musicali di Milano.
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Che dire poi del tema Spiriti? Questo era stato deciso già da prima della pandemia, e più che mai adesso si carica di nuove evocazioni. Da sempre la musica richiama dimensioni intangibili, quasi evanescenti, e forse più di altre espressioni artistiche individua e stabilisce nessi con gli umani aneliti spirituali. L’ispirazione artistica stessa può avere le sembianze di uno spirito, di un daimon dal quale tutto nasce e tutto s’informa – una “stella che danza”, avrebbe detto Nietzsche. In una contemporaneità già spiccatamente secolarizzata e desacralizzata all’esigenza di spiritualità si risponde in molteplici modi, ma è alla musica che più sovente ci si abbandona. E oggi il soggetto dello spirito è, in modo inatteso e angoscioso, assai calzante: richiama lo spettro del virus sconosciuto che aleggia fuori dalle nostre finestre, l’anima di chi non c’è più, ma anche, potremmo dire, l’aura sacra e religiosa che così facilmente oggi si smarrisce.
La musica ci riporta alla misura umana: l’esiguità del singolo in dialogo con l’ineffabilità dell’assoluto – una dimensione individuale e collettiva insieme, che si alimenta tanto nel piccolo spazio del privato quanto nel gomito a gomito della coralità.
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Gli appuntamenti degni di nota sono stati molti. Il concerto di apertura, tenuto dall’Orchestra Sinfonica di Milano con Daniele Rustioni alla direzione e Francesca Dego al violino, reca significativamente il titolo di Futuro e ha parlato di pellegrinaggi (Ned Rorem, Pilgrmis per orchestra d’archi), ricerca di felicità (Antonin Dvořák, Serenata in mi maggiore per archi op.22) souvenirs di luoghi amati (Pëtr Il’ič Čajkovskij, Souvenir d’un lieu cher op.42).
La giornata del 5 settembre è stata segnata dalle voci di Dio e ai suoi cieli: così l’Et Exultavit del Consort Maghini con i brillanti Magnificat di Schumann e di Durante e Silenzi e Voci col Coro e Orchestra Ghisleri, nel corso del quale ha spiccato il Salve Regina per soprano, archi e basso continuo HWV 241 di Händel. Nella giornata seguente l’ascolto si sospende tra il Seicento delle voci femminili e la levità di certe suggestioni novecentesche: l’Accademia dei Solinghi propone una preziosa scaletta di brani di monache, di rara misticità ed introspezione, mentre l’Orchestra de I Pomeriggi Musicali offrono spazio al flauto e al clarinetto in un programma che spazia dalle danze greche di Skalkottas a degli estratti di Lady Be Good di Gershwin, fino all’Oblivion di Piazzolla e alle danze popolari rumene di Bartók.
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Il Festival e la sua programmazione restituiscono un’idea di immaginazione aerea, di soffio, di voci immaginarie ed eloquenti silenzi, di visione e sospensione. Riconduce a una concezione dell’arte come disegno dei sommovimenti dell’anima, come intimo territorio di memorie e aspettative nel quale riabitare se stessi. Ad esempio un capitolo importante del Festival è dedicato allo strumento del violoncello, quasi come a voler dedicare un inno al gesto minimo e alla sua precisione. Uno strumento di solitudine e raccoglimento a partire dal quale si propagano possibilità interpretative ed emotive: questa è la via intrapresa da Giovanni Sollima, Enrico Dindo e Mario Brunello. Momenti di serenità improvvisa – di aperture verso il cielo – scaturiscono poi dai tanti concerti dedicati a temi liturgici, mantenendo vivo il dialogo tra sacro e profano che è peculiare della rassegna di quest’anno.
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Infine, un’attenzione particolare è stata riservata a Beethoven, della cui nascita ricorre il 250esimo anno. Un omaggio forte e originale è il concerto Beethoven: l’inizio e la fine, eseguito da Filippo Gamba, in cui nelle ultime tre sonate del maestro (Sonata n.30 in mi maggiore op.109, Sonata n.31 in la bemolle maggiore op.110, Sonata n.32 in do minore op.111) si incastonano due omaggi ad Haydn, maestro del compositore tedesco (Maurice Ravel, Menuet sur le nom de Haydn; George Benjamin, Meditation on Haydn’s name).
Il lascito del “terzo stile” di Beethoven è complesso e fecondo, seppur meno noto rispetto a quello del “secondo stile” (quello dell’Eroica e della Quinta Sinfonia, per intenderci), ed è proprio lo spirito di innovazione che queste pagine beethoveniane portano con loro a rendere così interessante e coinvolgente l’esecuzione. Da segnalare anche il concerto Apparizioni, in cui il Trio Debussy si cimenta con una pagina veramente spettrale del maestro (il Trio n.5 in re maggiore per violino, violoncello e pianoforte op.70 n.1) e con una partitura che gocciola nostalgia: il Trio in sol minore per violino, violoncello e pianoforte op.17 di Clara Schumann.
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