“Discorso sull’orrore dell’arte”: una conversazione tra Enrico Baj e Paul Virilio

È passato un anno dalla nuova ristampa de “Discorso sull’orrore dell’arte”, una conversazione sapida tra l’artista Enrico Baj e l’architetto Paul Virilio, per merito della casa editrice Eleuthera e mi è parso convenevole non riportare nemmeno una riga su un foglietto svolazzante, attendendo. Almeno sino ad ora. 


_di Alessio Moitre

Almeno sino alla constatazione di uno dei passi fondamentali dello scritto (denso di altre sfumature che non abbraccerò in questa recensione), che si potrebbe riassumere con “il concetto dell’incidente”, dell’accadimento imprevisto, forse infausto, nella maggior parte delle volte programmato masochisticamente dalla società.

“L’incidente integrale”, così lo definisce Virilio ed è davvero affiancabile alla quarantena che ha investito marzo e aprile del 2020. Certi libri hanno la tenuta d’invecchiamento d’un vino d’alta classe. Il sospetto che mi trovassi al cospetto di un testo che non potessi evitare me lo diede la conferma delle previsioni sovente crude su un mondo dell’arte ridotto alla venerazione elitaria e alla smaccata assenza di comprensione da parte del pubblico, che comunque ne rimane parzialmente affascinato.

Non contenti, i due cospiratori del pensiero, proseguono nel perpetrare il loro delitto nelle pagine successive e ripassano sul luogo dell’affermazione, di nuovo, e mi ripeto, mi spiace per i puristi della scrittura, sul tema dell’incidente-accidente (s’aggiunge un dettaglio), concependone anche un museo, “ovvero fare un museo di tutto quello che si è prodotto come incidente co-producendo degli oggetti, delle sostanze, dei veicoli, eccettera. Si tratta di un museo nuovo ove esporre gli incidenti e non solo gli oggetti e le sostanze innovative della scienza e della tecnica”. Il piano, se ordito, di sicuro rimestato nel cervello nel corso degli anni, ha un sostrato diabolico. Mettere in crisi partendo dall’inevitabile assunto che inventato qualcosa se ne materializza anche il difetto.

Se l’adagio umanamente sarebbe comprensibile, per l’arte assume una marcetta funesta perché dal mercato, alle filiere dell’estetica sino alla professioni, il difetto non solo ha ramificato ma ha saputo spargere i semi ben lontano, rendendo inutili considerazioni di merito e soprattutto critiche. Proprio la critica è stata estirpata di netto, non certo come pianta grama ma inutilmente riposta nel giardino sbagliato, quello del progresso, che è un mondo che non viene mai “toccato dall’idea di incidente”.

Insistiamo, maramaldeggiando quasi, investendo il cadavere. Ancora l’architetto: “Si tratta di esporre la sua negatività, la sua controproduttività, la sua faccia nascosta. Ogni oggetto è detentore di una potenza nefasta”. Sono certo che all’arte, soprattutto contemporanea, dev’essere sfuggito questo subisso di pensiero. Si è ritrovato ammonticchiato in angoli internettari riprovevoli ma in modo essenziale, marginali, che l’hanno reso un onanismo davvero elitario.

Questo orrore, che giunge in forma rappresa per tutto il corso della lettura, non è assente da zaffate odorose di partecipazione in larga parte riconducibili ad una sostanziale mancanza di volontà da parte degli artisti, sottomessi e persin gaudenti, da un mercato inevitabile ma in larga parte non diffuso. Evito di insistere ma ripeto che l’affinamento di questo scritto è stato adeguato, ha superato di slancio gli anni, quasi venti oramai, e si affaccia al nuovo ventennio con la certezza di non aver sbagliato. Non c’è stato un passo falso. Quello è avvenuto per merito dell’umanità.