[INTERVISTA] Deux Alpes: echi di sintetizzatori e cadenze intimiste

“Bittersweet” il nuovissimo singolo estratto dal nuovo album dei Deux Alpes previsto per il 2020, è disponibile dal 15 novembre su Spotify e le principali piattaforme di streaming. Edoardo e Giuseppe, il duo milanese amante delle sonorità che richiamano i gruppi EDM degli anni ’80 e non solo, sono tornati dopo l’ultimo EP Grenoble 1998, omaggio alla storica tappa del Tour de France vinta da Marco Pantani. 


_di Alessandra Giordano

In Bittersweet si nota fin da subito un cambiamento, partendo dalle sonorità e arrivando ad un focus più profondo sui testi; E. e G. hanno deciso di collaborare con diversi artisti, lasciando scorrere totalmente il flusso delle loro identità, dando così ad ogni brano un carattere distinto.

Il testo del primo singolo è stato scritto e interpretato da Arua, leccese-brasiliano classe 1994 che, grazie al sistema di sintetizzatori vocali modulanti e la sua timbrica soul apporta un’impronta contemporanea al brano insieme al suo racconto senza filtri.


Dal vostro primo EP Grenoble 1998 ad oggi con “Bettersweet”, cosa è cambiato a livello di sonorità ma anche a livello personale?

E: Le differenze tra Grenoble 1998 e il nuovo album in cui è inserita “Bittersweet” sono sostanziali da tutti i punti di vista. Grenoble 1998 è nato da un set concepito per il live che abbiamo riportato in bella in studio, le sonorità sono fuoriuscite in maniera naturale influenzate dalle esperienze con le nostre band storiche. L’idea di creare un concept album è venuta in un secondo momento ma ci sembrava calzante rispetto a tutta una serie di tematiche che eravamo interessati a toccare: il ritmo, la ripetitività, l’epicità: tutti elementi di contatto tra il ciclismo e la nostra musica.
Il nuovo album tocca diverse tematiche e non si tratta di un concept album. Le sonorità sono cambiate ma manteniamo un gusto retrò che abbiamo voluto modernizzare e fare più nostro. Ci sentiamo più soddisfatti a livello di produzione e di sound in generale, che sentiamo molto più maturo, più da Deux Alpes.

G: Il primo Ep era poco più di un gioco, entrambi avevamo anche altri progetti e abbiamo provato a fare qualcosa insieme. E’ stato molto istintivo. Il nuovo disco invece è frutto di un anno e mezzo di lavoro. Ha coinvolto altre persone sia in fase di produzione che di mix. Ma più di ogni altra cosa siamo cambiati noi, le nostre idee, ciò che volevamo e come ottenerlo.

Arua, è la voce che ci accompagna nel brano, come è nata la collaborazione? Date le sue origini italo-brasiliane, l’intenzione è stata quella di ricreare una determinata atmosfera? Ci siete riusciti?

Matteo l’abbiamo incrociato in diverse serate in cui abbiamo condiviso il palco. La sua creatività è indubbia, ha svoltato il pezzo come tutti gli altri artisti con i quali abbiamo collaborato ai quali abbiamo lasciato piena libertà espressiva e il risultato è stato più che soddisfacente.

La cosa che mi ha colpito di Grenoble 1998 è la sua natura di concept-album non solo a livello di concetto, ma anche a livello sonoro. I cari Beatles furono tra i primi a concepire questa tendenza, è trascorso molto tempo e vorrei chiedervi: qual è il concept album che più di altri ha destato in voi interesse?

G: Mi ha sempre affascinato l’idea del concept album a partire appunto dai Beatles per arrivare ai Kraftwerk che sono poi forse il punto più vicino all’idea di ciò che è stato Grenoble 1998. In generale ho sempre pensato che la musica come forma d’arte non dovesse limitarsi all’espressione sonora. In un contesto in cui le canzoni erano senza testo, ci è venuto naturale trovare un altro modo di narrare. Anche se io ho sempre pensato a quel demo più ad una colonna sonora che ad un concept album.

E: Sono cresciuto con il rock progressivo anni ’70, allora il concept album era praticamente un obbligo. Tra i tanti potrei citare The lamb goes down on broadway dei Genesis, Maudits degli Area, Un biglietto per il tram degli Stormy six…potrei andare avanti. L’idea del concept album mi ha sempre affascinato, ma per il nuovo album abbiamo preferito mantenere una libertà artistica totale soprattutto sui testi. Ci piace pensare che il risultato sia una sintesi tra la nostra musica, sicuramente caratterizzante, e gli spunti dei diversi artisti con cui abbiamo collaborato. E’ al tempo stesso il risultato di un esperimento collettivo e personale.

Il vostro sound mi riporta in qualche modo a gruppi come i grandissimi Daft Punk e gli eclettici Kraftwerk, quali sono gli artisti che più vi hanno ispirato per il nuovo album e, che vi hanno guidato negli anni? 

E: Entrambe le band che citi sono nella nostra playlist ideale, ma la loro influenza si sente molto di più in Grenoble 1998. Bittersweet e tutti i pezzi del nuovo disco nascono influenzati da ascolti più recenti. Personalmente traggo spunto da artisti come Jon Hopkins, Gesaffelstain, Floating Points ma anche The Field, Daniel Avery e Miss Kittin. Mi piace sempre sporcare il suono e incasinare l’arrangiamento e prendo spunto anche da artisti non peculiarmente appartenenti all’EDM e all’elettronica, in primis gli Animal Collective.

G: Del duo io sono sicuramente l’anima più “pop”. Anche se i miei ascolti, soprattutto negli ultimi anni, si sono molto avvicinati a quelli di Edo (Su tutti alcuni artisti italiani come Tale of Us o Not Waving) mi rimane un imprinting abbastanza forte della musica più tradizionale. Non dico melodica. Però band come quelle citate, su tutte i Daft Punk o di Chemical o tutto il Trip Pop hanno avuto un percorso rivoluzionario ma alla portata di tutti. Nella band sono sicuramente quello che punta di più sulle strutture, sulle melodie, sul “cantabile”.

Sempre i Daft Punk in un’intervista affermarono che la EDM (Electronic Dance Music) è in crisi, riguardo la scena italiana e internazionale cosa ne pensate? 

E: La scena non è in crisi. Quando abbiamo iniziato a suonare noi, intendo dire al liceo, nessuno si sarebbe sognato di mettersi su un software a smanettare per creare musica elettronica: era l’era dei chitarristi e dei batteristi. Adesso se hai sedici anni la situazione è completamente diversa. La crisi è delle etichette e dei locali che non hanno il coraggio di proporre questo tipo di musica a livello emergente. Di certo i Daft Punk questo non possono saperlo.

G: Io in realtà un po’ lo capisco. Vero tutto quello che dice Edo ma proprio per questo forse viviamo in un momento di transizione. Se si pensa a cosa hanno fatto i Kraftwerk negli anni ’70 o le prime band EDM degli anni ’90 quando in giro c’era solo brit pop o grunge. Sembravano degli alieni. Facevano musica del futuro. Oggi appunto non è più così. E’ tutto alla portata di tutti molto facilmente e la commistioni tra generi che ha portato comunque l’utilizzo di sintetizzatori, drum machine, etc. Nella musica pop ha un po’ sovvertito i ruoli e oggi fare la musica del futuro, per citare Moroder, è più complesso.

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L’ascolto di “Bittersweet” vede la creazione di un personaggio decisamente borderline, emette quasi delle grida come richiesta d’aiuto, volevate comunicare qualcosa in particolare con questa scelta?

G: Il processo compositivo tra musica è testo è stato assolutamente scollegato. Noi abbiamo pensato alla musica, lasciando completamente liberi gli artisti per quando riguarda le liriche. Del pezzo di Arua mi ha colpito subito l’anima soul e la melodia. Una mattina poi mentre andavo a lavoro mi sono trovato a camminare per strada da solo, era ancora buio, ho ascoltato il testo forse per la prima volta in maniera precisa e mi ha tirato un pugno nello stomaco. Ho notato questo grido disperato e mi sono quasi commosso.

E: La musica come qualsiasi altra espressione artistica nasce come urgenza comunicativa, è un istinto. Almeno, così la vivo io. Il racconto di Arua nasce da questa urgenza e noi abbiamo accettato la sua storia e abbiamo deciso di non censurare nulla. Un filo conduttore non platealmente espresso nel nuovo album potrebbero essere le pulsioni del nostro tempo, di cui sicuramente le dipendenze fanno parte, ci è sembrato giusto inserire un testo del genere nel nuovo disco.

La musica electronic-dance non ha bisogno di volti, stiamo entrando in un’epoca in cui la tecnologia la farà da padrone e noi non siamo altro che il risultato di queste innovazioni tecnologiche. La EDM ci tiene a creare dei loop che possano rimanere impressi nell’ascoltatore e ritmi minimali, dritti e talmente sincopati da risultare quasi “vivi”. Questi suoni forniscono una diversa visione della realtà, quasi vera. Secondo voi nella situazione di de–umanizzazione, comprendendo la sfera musicale, quale potrebbe essere l’azione da intraprendere? Dovremmo dare più importanza alle cose che accadono nel presente e non soffermarci sul passato o pensare al futuro?

E: La musica dovrebbe essere politica. Anche con la musica elettronica si può raccontare il presente e creare uno scollamento con la realtà è rischioso, si rischia di non dire nulla o peggio di raccontare qualcosa che non esiste. Soprattutto con “Bittersweet” raccontiamo il presente ma anche negli gli altri pezzi che pubblicheremo in futuro ci sono dei riferimenti alla nostra società. La risposta è sì, la musica e l’arte devono sempre parlare del presente, anche parlando del passato. 

G: Non è proprio così se pensi a Hopkinse a come suona il piano, al RAM dei Daft Punk o alle batterie dei Justice, sono piene di umanità, di “suonato”. La musica elettronica sta appropriandosi sempre più degli strumenti e di una vitalità che non le apparteneva. Sono esempi non recentissimi ma che hanno fatto scuola. Poi certo c’è Ableton, ci sono i sequencer, i loop ma oggi la differenza in questo tipo di musica la fa il lato umano, poco da dire.

Edoardo e Giuseppe, essendo di Milano mi sorge dunque questa domanda, esiste una sorta di punto di ritrovo per la musica elettronica a Milano? Come dovrebbe essere quello ideale per voi?

Siamo da sempre degli outsiders e frequentiamo poco certi luoghi. Sicuramente il Tempio del Futuro Perduto sta lavorando molto bene anche se il posto ha un sacco di contraddizioni ed è mal visto nell’ambiente dei luoghi alternativi a cui si fregia di appartenere. Macao fa sempre la sua parte, ma io sono affezionato alle proposte di Buka, una serata molto interessante e sempre con proposte intelligenti. Comunque non credo esista un luogo di ritrovo fisso. Milano si basa tanto sugli eventi mordi e fuggi e poco su posti vivi tutto l’anno con una bella programmazione. La chiusura del Dude ne è una triste conferma. Sarebbe necessaria una ridistribuzione dell’offerta in luogo dell’accentramento che si è andato creando in questi anni, con eventi enormi una volta ogni tre mesi e poca offerta di nicchia tutto l’anno.

Tornando al vostro album previsto per il 2020, cosa vi aspettate? Qualsiasi tipo di spoiler è accolto… A noi non resta che aspettare. 

Ci aspettiamo che i due mondi in mezzo a cui fluttuiamo, ovvero il mondo elettronico e quello “pop” o “indie” si possano ritrovare concordi sul fatto che il nostro sia un album ben fatto, ballabile, divertente ma con la giusta dose di profondità.

Grazie Edoardo e Giuseppe per l’attenzione e la disponibilità.

Articolo in collaborazione con Futura 1993, il network creativo creato da Giorgia Salerno e Francesca Zammillo che attraversa l’Italia per raccontarti la musica come nessun altro. Seguili su Instagram e Facebook!