FUTURA 1993 X OUTsiders | Wrongonyou e la voce di Milano

Da Roma a Milano per cambiare tutto: Wrongonyou lascia la capitale e approda nel capoluogo lombardo, condensando la sua esperienza milanese in un disco nuovo di zecca. Milano parla piano arriva a ottobre e vede Marco Zitelli alle prese con cantato italiano, autotune e sonorità che strizzano l’occhio a Bon Iver. Per l’occasione, Futura 1993 ha scambiato due chiacchiere con il cantautore romano alla scoperta della sua nuova fatica discografica.


_di Anna Signorelli

Wrongonyou è il nome d’arte di Marco Zitelli, artista romano, classe 1990, da poco trasferitosi a Milano. Questo cambiamento ha influito parecchio sulla sua vita, tanto che il nuovo disco, uscito il 18 ottobre per Carosello Records, si intitola proprio Milano parla piano

Sin dall’annuncio di questo disco e dalla pubblicazione dei primi singoli, Mi sbaglio da un po’ e Solo noi due, la novità è stata evidente: abituati al retaggio dei primi dischi in cui l’inglese era protagonista, Wrongonyou ha deciso di stupire tutti scegliendo l’italiano come lingua per questo suo ultimo lavoro. Molto curiose di sentire cosa ci avrebbe proposto Marco, noi di Futura 1993 abbiamo avuto la possibilità di ascoltare le canzoni in anteprima e scambiare due chiacchiere con lui. 

Hai una traccia preferita dell’album?

Atlante la definisco la traccia centrale: l’ho fatta con Dardust e insieme siamo riusciti a comporre una cosa molto pop, ma mascherandola. O meglio, non è mascherata: ha tante cose che a livello musicale sono difficili, dal pianoforte al fatto che c’è un cambio di tonalità. Secondo me è una novità, sia per me sia per la musica italiana in generale: si toglie un po’ dai quei quattro accordi che girano tutti uguali. Qui abbiamo creato qualcosa di più urban, più contemporaneo. Da qui anche la scelta dei miei collaboratori per questo disco: fra gli autori c’è Raina che è tra gli autori che ha scritto Riccione, quindi è abituato a lavorare anche con un pop più radiofonico, possiamo dire. Nel momento in cui il cantante è anche musicista, vedi Battisti e Mogol, la musica gli arriva in maniera diversa. Io mi sono messo anche in gioco sul ritornello, rappandolo un pochino, per non fare di nuovo il classico ritornello molto aperto e melodico e cercando di inserire la melodia in quei pochi spazi a disposizione visto il testo che avevo scritto. 

Per quanto riguarda le influenze, si sente parecchio quella di Bon Iver: c’è un motivo particolare per questa scelta? 

Guarda, una volta una webzine, dopo che avevo aperto ai Boxerin Club, scrisse di me: “Non ho fatto in tempo a sentire l’apertura, però tutti mi hanno detto che è il Bon Iver italiano”. Da lì mi è stata attaccata quest’etichetta di Bon Iver, e non mi si è più staccata. Io ho preso questa cosa e ci ho giocato: visto che mi dicevano che ero il Bon Iver italiano, ho deciso di fare Bon Iver in italiano! È stata un po’ una sfida e comunque la sua musica mi ispira molto. C’è affinità nei suoni e nella vocalità, però non c’è stata una ricerca dietro a questa cosa, è venuta molto spontanea, e si sente soprattutto verso la fine dell’album. Sicuramente, però, c’è stata una ricerca generale in fatto di suoni: volevamo portare in italiano qualcosa che non esistesse, volevamo usare la voce in maniera ritmica, che facesse da contorno alla canzone stessa. La cosa che mi interessava di più era di riuscire a mettere la lingua italiana su un sound molto più internazionale, senza cadere nel cliché del ragazzetto indie italiano di turno che riprende dal cantautorato anni Sessanta, pur avendomi molto aiutato quel genere di musica. Tra l’altro, io non avevo mai ascoltato molto quegli artisti, da De Gregori a Dalla… li ho scoperti e studiati quest’anno, con molta coscienza, quindi me li sono proprio gustati. 

Spesso parlare in una lingua diversa dalla propria può portare a pensare in maniera diversa dal solito: tu per questo disco hai scelto di esprimerti in italiano. Come ha influito questo fattore sul tuo processo creativo e sulla tua scrittura? Ti ha portato ad affrontare tematiche diverse?

Per quanto riguarda le tematiche, penso abbia influito molto il mio trasferimento a Milano. Mi sono trasferito qui a settembre scorso e in realtà avevo cominciato a scrivere un altro disco, sempre in inglese. Poi ne ho scritto un altro, anche quello in inglese, e alla fine li ho buttati entrambi perché mi era entrato in testa il tarlo del “dover essere radiofonico”, quindi non li sentivo come dischi puri e sinceri. Ho ricominciato da capo e mi sono voluto mettere in gioco con l’italiano: ho iniziato facendo qualche cover di Battisti, che tra l’altro cito spesso perché trovo molte similitudini fra lui e il primo disco di Bon Iver – ci sono una marea di corni francesi, di cori e falsetti che me l’hanno ricordato parecchio. Comunque all’inizio non ero tanto certo di quello che volevo fare, quando poi ho cominciato a lavorare con degli autori sono uscite delle canzoni in italiano che mi piacevano. Mi sono reso conto che, rispetto all’inglese, avevo uno schermo in meno: quando canti e parli in italiano, ciò che dici arriva in maniera diretta a chi ti ascolta, mentre tante volte in inglese la lingua viene storpiata da chi canta, o comunque fraintesa dall’ascoltatore, uno segue il ritmo e la melodia, magari senza capire se il testo è bello o no. Inizialmente la difficoltà è stata proprio essere sinceri e riuscire a dire quello che volevo. Non è stato facile nemmeno adattare la mia vocalità all’italiano; nella nostra lingua ci sono tantissime parole troncate, una marea, e non è facile allungarle come faresti se cantassi in inglese, che è una lingua molto musicale, ogni frase quotidiana può essere messa in musica.

È stato quindi duro scrivere le parole in base alla mia necessità vocale, alcune cose sono proprio state riscritte per seguire la melodia. È stato un trauma all’inizio, però comunque è un po’ come quando ti fai un tatuaggio o un piercing: prima hai paura, poi superi il dolore e sei soddisfatto del risultato.  Sta tutto lì, nell’affrontare la difficoltà e la paura iniziale. 

A proposito di paure, ci tieni molto a rimarcare che lo stile di scrittura e le melodie restano fedeli allo stile Wrongonyou: come mai? Temi che il tuo pubblico possa pensare che sei cambiato?

Sai, c’è molto pregiudizio. Mi sono arrivati dei messaggi, dopo che il mio comunicato stampa aveva annunciato che avrei scritto in italiano, del tipo: “Ah, sei diventato commerciale”. Così, senza nemmeno aver ascoltato quello che avevo prodotto. Dopo l’uscita dei due singoli avevo molta paura di ritrovarmi altri messaggi di quel genere, in realtà ne è arrivato solo uno: inizialmente me l’ero presa, poi ho cercato il dialogo e rispetto l’opinione di tutti, anche se non mi piace mai l’arroganza. 

Come mai hai scelto proprio Milano parla piano come title track?

Mi piace proprio come suona, mi fa pensare un po’ a Gino Paoli, una scrittura di quel tipo. Poi sono molto attaccato a quella canzone, mi piace tanto e, allo stesso tempo, avendo scritto tutto il disco mentre ero qua a Milano, mi sembrava giusto dargli importanza. Nella frase della canzone dico “Milano parla piano, almeno questa notte”: io vivevo in zona Castelli Romani, estremo sud di Roma, non ho mai vissuto la frenesia della città, mentre Milano è molto frenetica, c’è molto arrivismo, passami il termine. Ho conosciuto pochissima gente di Milano, la vedo proprio come una città di passaggio, però c’è anche una bella energia, c’è voglia di fare e di innovazione, infatti nella canzone prego la città di fare piano, di calmarsi, di darmi modo di fare quello che devo fare. Milano comunque mi ha anche dato tantissimi stimoli a livello creativo, c’è sempre qualcosa da fare. 

Questo disco è molto cinematografico, oserei dire, forse perché comunica molto per immagini. So che tu hai anche lavorato alle musiche per il film di Gassman, credi che quest’esperienza ti abbia in qualche modo influenzato nella scrittura dell’album?

La tua sensazione è giusta, visto che lavoro tantissimo con le immagini. Il fatto della colonna sonora per me è stato molto importante, anche perché è un mondo che mi è sempre piaciuto. La musica nel cinema per me è un fattore fondamentale: prendiamo Shining, guardandolo senza musica è una cosa tranquilla, è stata la colonna sonora a creare il mito. Quando Gassman mi ha chiamato al telefono ero emozionato, non sapevo che dirgli. È stato molto forte musicare delle immagini, è un lavoro completamente diverso da quello a cui sono abituato, non esistono strutture, ti devi adattare a quello che vedi, però è stato molto bello perché ho fatto quello che ho sempre sognato: già a 18 anni suonavo la chitarra mentre guardavo i film! 

In questo tuo ultimo lavoro fai anche uso dell’autotune, come mai questa scelta?

In realtà io l’ho sempre utilizzato live perché mi affascina molto la possibilità di usare la mia voce come uno strumento. Se uno sa cantare penso sia una cosa fighissima. L’autotune è nato con Cher, che era stonatissima mentre era in studio per registrare “Believe”, e per darle una mano le correggevano la voce sempre di più, finché hanno scoperto che l’effetto era effettivamente figo. Poi Kanye West ha aperto un mondo, e io mi sono ispirato molto a lui. Comunque è un modo di cantare, per quanto nuovo, e quindi bisogna saperlo usare. 

Futura 1993 è il network creativo creato da Giorgia e Francesca che attraversa l’Italia per raccontarti la musica come nessun altro. Seguici su Instagram e Facebook!