Masego e Kamasi Washington portano il groove oltre i confini di genere

Il Circolo Magnolia di Segrate ha accolto, martedì scorso, i concerti di due neo-maestri del suono, tra jazz, soul e addirittura echi trap.

Nella cornice tanto suburbana quanto bucolica del Magnolia – tra punti ristoro, brandine, oasi ludiche e luci soavi – ha avuto luogo, martedì scorso, un evento che, a distanza di qualche giorno dal suo svolgimento, desta ancora stupore per il suo portentoso impatto sonoro: il Circolo Magnolia di Segrate ha, infatti, ospitato i concerti del giovane Masego e dell’“epico” Kamasi Washington.

A introdurre quello che, infatti, si è rivelato, nel corso della serata, un immersivo e totalizzante amplesso musicale, il sound incredibilmente eclettico e personale del musicista americano, intriso di soul e jazz ma arricchito di ritmi hip hop e di un’eco trap: Masego ha mostrato non solo la sua encomiabile natura di intrattenitore, ma anche, e soprattutto, quella di musicista e polistrumentista capace, conscio e audace nel porsi ai limiti dello scibile per poi rivoluzionarlo, generando risultati imprevisti e appassionanti.

Proprio come il protagonista principale della serata, il sassofonista e compositore Kamasi Washington, che, con la sua eccezionale band di talenti e la tunica maestosa che lo contraddistingue, ha introdotto gli astanti in un caos primigenio di sfumature sonore in cui le forme potenziali hanno ribollito e, in seguito, generato una comunione di suoni estasiante e peculiare.

Ad animare la scaletta, pochi brani: ça va sans dire per un artista che, in piena sintonia con i grandi compagni afro futuristi come Sun Ra, Pharoah Sanders o Fela Kuti, è in grado di generare composizioni complesse, variegate e della durata di circa 10 minuti ciascuna. Una scelta che ha, dunque, concesso agli otto elementi del collettivo di recare con sé, sul palco, dosi massicce di improvvisazione armonica e, soprattutto, dinamica, passando dall’atmosfera tipica del trio jazz ai momenti corali propri di un’orchestra sinfonica.

Arricchiti, a loro volta, dalla decisione insolita di presentare due batteristi in formazione – complici di aver condotto il livello di groove alle stelle – e il padre, anch’esso sassofonista, Rickey Washington, meritevole di aver restituito una vena di tenerezza e romanticismo all’esecuzione dei pezzi selezionati.

«Siamo tutti unici e differenti, ma, quando siamo insieme, parliamo il medesimo linguaggio: quello dell’amore. E io vi amo», ha, infatti, precisato l’artista californiano, quasi a suggellare un concerto che, animato dal suo jazz futuristico e dalle varianti architettoniche intorno a esse erette, ha assunto i contorni di un’intima e appagante “messa laica”, al cui richiamo nessuno dei presenti ha potuto, e voluto, sottrarsi.

Restando adoranti e attoniti fino alla fine: fino al bis, ai saluti conclusivi e alla chiosa di una festa musicale ineguagliabile e tumultuosa, nel corso della quale Washington si è dato generosamente e meravigliosamente, condividendo parentesi di sé emotive e ignote e una passione musicale commovente e sbalorditiva.