Un “Atlante immateriale” per scoprire il nuovo Circolo del Design a Torino

Un viaggio a portata di sguardo tra oggetti, immagini e materiali che raccontano l’antica – ma quanto mai contemporanea – storia dell’artigianato piemontese, con un occhio rivolto alla tradizione e l’altro proiettato verso l’orizzonte dell’innovazione e del design.

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_di Giorgio Bena

La folla straripante accorsa per l’inaugurazione della nuova sede del Circolo del Design fa ben sperare rispetto all’intento dichiarato dal Circolo stesso di diventare una “nuova casa della Design Culture” torinese (e non solo).

Il design degli interni e degli arredi – neanche a dirlo – è perfetto, curato con una semplicità che non esclude affatto una grande raffinatezza e valorizza alla perfezione le peculiarità di un edificio perfettamente integrato nel tessuto liberty del centro ma che si presenta al visitatore con una modernità che nulla ha da invidiare ad altri spazi costruiti ad hoc per ospitare organizzazioni come questa. E se è vero che la prima impressione è quella che conta – ed è davvero un’ottima impressione – il Circolo del Design dimostra nel giro di pochi minuti di dare tanta importanza al contenuto quanta al contenitore.

La presentazione di Atlante Immateriale (2 aprile-18 maggio), mostra che inaugura le attività della nuova sede, è semplice, informale ma assolutamente efficace nel valorizzare il significato della mostra stessa e il suo rapporto con le prospettive di lavoro di questa nuova fase della vita del Circolo.

Interviene prima la direttrice Sara Fortunati per presentare il progetto, seguita dai curatori Achille Filipponi e Matteo Milaneschi che entrano in maniera più specifica nei contenuti e nella visione d’insieme che ha guidato il lavoro di costruzione della mostra stessa, in particolare spiegando la scelta di esporre materiali e strumenti di lavoro – elementi sintattici di un racconto che ha per protagoniste alcune interessanti realtà artigianali piemontesi – al posto di “pezzi finiti”, passando per un efficace riflessione sul legame tra questo tipo di “reperti” ed alcune esperienze artistiche caratteristiche degli anni ’60 e ’70 come l’Arte Povera e l’Anti-form.

È poi il turno di Sara Ricciardi, giovane designer campana chiamata ad interpretare attraverso il proprio linguaggio una di queste tecniche (il marmo artificiale di Rima) in dialogo con un artigiano. È proprio l’intervento di quest’ultimo, Simone Desirò (supportato da una bellissima video-intervista a tutti gli artigiani coinvolti nel progetto proiettata subito dopo), che a mio parere rappresenta il cuore dell’evento: nonostante la sua timidezza, che dimostra l’estraneità che lui stesso dichiara rispetto ai meccanismi della “design culture”, l’artigiano è in grado di raccontare in poche parole il legame con la tecnica, la tradizione e la materia che Atlante immateriale pone al centro del proprio discorso, pur evocando una grande volontà di rinnovamento che passa per il dialogo con il mondo del design.

L’allestimento che si presenta al visitatore ha più dell’etnografico che dell’artistico, ed è composto da una attenta selezione di fotografie, strumenti di lavoro e campioni di materiale che raccontano la storia dei processi in maniera più efficace di quanto un’oggetto finito solitamente non faccia: l’obiettivo della mostra è infatti quello di ribaltare il “paradigma espositivo più tradizionale che prevede la messa in scena dell’artefatto artigianale a discapito del processo di ideazione e realizzazione dello stesso”, dando risalto alle tecniche artigianali come documento culturale e patrimonio immateriale (tema sempre più presente nella museografia contemporanea) svincolandole dalla sola natura strumentale.

Gli oggetti e le immagini che ci vengono proposte, allestiti con un’eleganza impeccabile, diventano quasi reperti di un mondo lontano ed esotico per la nostra società post-industriale che ha gradualmente ma inesorabilmente alienato il prodotto dal suo processo di produzione: sono testimoni di evoluzioni possibili della materia che ai più appaiono come oggetti misterici ma che costituiscono la naturale prosecuzione di una ritualità organica per gli artigiani che ogni giorno si confrontano con questi processi.

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Al centro della sala Toeletta, progettata da Sara Ricciardi e realizzata da Simone Desirò si erge come un idolo dalle cromie ardite e dalle linee seducenti in grado di evocare una monumentale e ieratica idea di femminilità: quasi una dea della contemporaneità, che ponendosi come centro gravitazionale di questa riflessione sembra voler indicare una delle possibili vie del design contemporaneo italiano, che forse proprio nel recupero di un rapporto simbiotico con le eccellenze artigianali della nostra tradizione può trovare nuovi modi agire in grado di portare entrambi i mondi a soluzioni formali inedite e cariche di potenza innovativa.

Per altre informazioni su Atlante immateriale e sul ricco programma di attività, talk, workshop e mostre del Circolo del Design: http://www.circolodeldesign.it/