La casa di Jack: la “criminalia erudita” di Lars von Trier

Riprendendo uno dei tòpoi classici del thriller, il regista danese tratteggia un profilo complesso dei moti che agitano la mente dell’assassino compulsivo, con la fredda maestria che lo rende uno degli autori più discussi della nostra epoca. Il serial killer è messo a nudo nel suo regno di farneticazioni e di conflitti con il mondo, del quale si ritiene arbitro supremo.

 

_di Alberto Vigolungo

Se c’è qualcosa che proprio non si può rimproverare a Lars von Trier, dopo più di quarant’anni di carriera, è la sua perseveranza, come autore e come personaggio pubblico. Una silente ostinazione che mette in imbarazzo persino il Festival di Cannes, che lo escluse dalle selezioni nel 2011, ma che ancora proietta i suoi film nella sezione fuori concorso. Così è stato per La casa di Jack, scritto e diretto dall’autore danese, e presentato sulla Croisette lo scorso anno.

Ma anche la metodicità che condivide con il protagonista del film, un assassino seriale psicopatico che si aggira tra le foreste del Nord-Ovest americano con un furgone rosso, nei pressi di una cittadina che potrebbe essere benissimo la Twin Peaks di David Lynch, salvo che la storia è ambientata negli anni Settanta. Jack è spinto ad attuare i suoi intenti omicidi quanto a riflettere sull’esperienza di questi ultimi, cercando la legittimazione di un’azione ai suoi occhi troppo superiore per essere sottoposta ai labirinti della morale, incarnata dalla figura di un oscuro confessore che si presenta come un “esperto” di sofferenze umane. Il loro dialogo si svolge a schermo nero, prima che “Verge” accetti di accompagnare l’uomo nel suo viaggio all’inferno e di constatarne l’ultima follia. La Commedia dantesca viene così spogliata dell’originario valore catartico, perché Jack tenterà un’impossibile via d’uscita  senza mai riconoscere la propria dannazione. L’ultima immagine, un campo lungo dell’uomo che precipita in un lago di magma incandescente, è dominata dal colore rosso, che ha accompagnato la parabola del protagonista e che infine lo inghiotte. Giustizia è fatta? Come sempre accade nel cinema di Lars von Trier la risposta non è scontata, anche se l’ultima immagine, un’inquadratura dall’alto, sembra recare lo stigma del contrappasso, e, in un certo senso, la penosa banalità dell’individuo: in pochi secondi Jack scompare, un tempo insignificante rispetto a quello “rituale” che ha accompagnato i suoi delitti.

Se da una parte la fragilità psichica del personaggio è alla base delle sue incertezze nella vita di tutti i giorni, la scrupolosità nel pianificare le sue azioni, nei primi tempi offuscata da varie manie, si trasforma in una crescente consapevolezza; raggiunto questo stato, tutti i suoi sforzi sono rivolti alla glorificazione del delitto. Jack non parla mai delle sue avventure criminali, che scorrono sotto gli occhi dello spettatore, ma cerca di dare forma alla propria filosofia, di sottolineare la coerenza della sua azione. Ed è proprio nel precipitare nell’abisso delle pulsioni di questo ingegnere solitario che il film si stratifica in diversi livelli di significato, ricorrendo talvolta alla citazione colta (vedi riferimento alla celebre poesia di William Blake, The Lamb and The Tiger, di cui il protagonista esalta la visione manichea del mondo, o la sequenza al ralenti che ritrae Jack e il suo “Virgilio” a bordo di una zattera, in una composizione che richiama alla mente il capolavoro di Théodore Géricault, peraltro curiosamente attratto dalle fisionomie di persone affette da monomanie varie), talvolta alla visualizzazione grafica dei meccanismi psichici dell’uomo.

Fin dall’incipit Von Trier mette in chiaro le regole del suo gioco, in cui  due piani di realtà (fenomenica e psicotica) collimano in più punti, rendendo impossibile una visione oggettiva delle cose.

Il primo dei cinque episodi che il personaggio definisce “incidenti” riguarda l’omicidio di una donna piantata in asso dalla sua auto a causa di una foratura,  e soccorsa da Jack alla guida di un bizzarro furgoncino rosso. Tutta la scena si svolge in un’atmosfera straniante in cui il personaggio è sopraffatto dalla beffarda parlantina della donna, che insinua più volte il fatto che Jack possegga tutti i requisiti del serial killer: il delitto, tanto rapido quanto brutale, si verifica al culmine di questo dialogo dai toni irreali, per cui il possibile “remoto” si trasforma improvvisamente in fatto concreto. E il regista tesse abilmente la trama di questo meccanismo, attuando uno stile di ripresa che non lascia prendere fiato allo spettatore: la cinepresa è in continuo movimento e vaga insieme ai personaggi, sottolineando con potenti carrellate ottiche gli oggetti con cui interagiscono, fino al crick che diventa l’arma del delitto.

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Il primo episodio è anche l’ultimo in cui Jack ravvede  un elemento di casualità: a partire dallo stesso, e dopo aver imparato a modulare il suo sangue freddo, ricercherà nei suoi crimini un significato più profondo, lo stesso dell’arte e della musica.  Ma già nel riflettere su questo “incidente” Jack chiama in causa la bellezza austera delle cattedrali gotiche suggerendo, con una descrizione tecnica della loro architettura, una delle sue più grandi frustrazioni, forse la più profonda: quella che riguarda la sua professione, l’ingegnere, ritenuta inferiore a quella dell’architetto. La stessa che gli impedisce di completare il progetto di una casa che vorrebbe costruire interamente da sé e che traspare durante l’incontro con la sua ragazza (disprezzata più volte con il nome di “Simple”), prima che anch’ella venga torturata e uccisa. “Qual è la differenza tra l’ingegnere e l’architetto? L’ingegnere legge la musica, l’architetto la suona…” dice Jack, nuovamente risucchiato nel vortice del suo delirio.

La terribile sequenza di omicidi commessi dall’uomo presenta delle caratteristiche peculiari, unite alle sfogo delle sue fobie e alle prime manifestazioni in età infantile. Le vittime sono quasi tutte donne, come nota Verge, attratte nella tela nel ragno secondo modalità differenti. Ciascun episodio finisce così per fornire le tessere di un puzzle in cui il quadro della personalità dell’uomo si compone poco a poco: il disturbo ossessivo-compulsivo emerso chiaramente nel primo “incidente” si manifesta nel secondo assumendo una sfumatura comportamentale diversa, osservabile nell’eloquio spigliato con il quale inganna la vittima, una vedova che vive da sola nella casa di famiglia. Un’inclinazione comunicativa del tutto assente nella vita quotidiana del personaggio, che, unita alla descrizione fisica di un impulso a uccidere che si manifesta come una crisi da dipendenza, lo avvicina alla figura letteraria del “Texas Highway Killer” creato da Don DeLillo in Underworld (1997); tuttavia, se nel caso del personaggio di Von Trier l’eloquio si presenta come “mezzo” per perseguire il macabro scopo, nel secondo l’”esplosione” della parola si verifica dopo i delitti, quando l’uomo, ancora eccitato dall’esperienza del delitto, telefona in studio durante le dirette di una trasmissione televisiva per parlare delle sue imprese, osservando le reazioni della giornalista sullo schermo.

Il manifestarsi di queste pulsioni è inserito in un processo più volte messo in analogia con l’inarrestabile flusso creativo di un Glenn Gould al pianoforte, le cui sinfonie schizofreniche risuonano nelle pause della narrazione, irrompendo come la “nona” di Beethoven in Arancia meccanica. La colonna musicale – a cura di Victor Reyes – tiene il tempo della follia, privilegiando sonorità dure e sincopate, con rumori metallici che accompagnano il film fin dall’inquadratura che reca il titolo, in una delle composizioni audiovisive più intriganti degli ultimi anni. Allo stesso modo, Matt Dillon dimostra tutta la propria abilità nel muoversi tra registri diversi, consegnando un altro dei suoi personaggi iconici.

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Su questa fitta trama di rimandi storico-culturali, impliciti o espliciti (come le immagini di parate naziste e di devastazione bellica), Lars von Trier basa una riflessione che per Jack assume un significato puramente estetico, glorificando il gesto omicida come atto artistico “puro”. Un agire che, nel racconto, trova piena affermazione nel terzo “incidente”, definito come il suo “capolavoro”: lo sterminio di una famiglia, portata da Jack in un poligono di tiro dove ci si esercita alla caccia. Dopo aver illustrato alcuni principi della disciplina al suo confessore, il protagonista racconta di averli messi in pratica sulle vittime, letteralmente abbattute con un fucile di precisione. La violenza di Jack, tuttavia, non si ferma qui: una volta eliminata la madre, costretta ad assistere alla morte dei suoi bambini e a imboccare i loro cadaveri, l’uomo si cimenta nella composizione di un’opera d’arte sul prato della riserva.

Andando oltre l’impatto di quella che verrà ricordata come una delle sequenze più angosciose della storia del cinema, in cui consequenzialità dei fatti e allucinazione  si scontrano frontalmente, si può comprendere il valore attribuito da Jack alla sua opera: risultato di una disciplina maturata di delitto in delitto, essa rappresenta l’essenza di una volontà che trova compimento, la stessa che l’uomo non riesce a esprimere nel progetto di costruzione della sua casa. Del resto, il viaggio finale di Jack negli inferi, quando ormai la sua parabola sta per concludersi, ha inizio quando il personaggio entra insieme a Verge sotto un capanno fatto di corpi, a rimarcare la sua ossessione e, al tempo stesso, il suo fallimento. Solo in un manufatto simile Jack ha potuto sfogare quel senso di incapacità e inettitudine che ha sempre cercato di nascondere, in primis a se stesso. Questo evento, e prima ancora la comparsa di Verge nella cella frigorifera-caveau che custodisce i cadaveri delle sue vittime, fa saltare le residue coordinate spazio-temporali. Tutto è caos,  il personaggio uno spirito errante: soltanto la caduta lo restituisce ad una dimensione umana, come si osserva nell’ultima inquadratura, in cui la sua figura è ridotta ad un punto nero.

La casa di Jack si presenta senz’altro come un’opera ambiziosa, progettata per rimanere nel tempo, come confermato da un processo di realizzazione durato due anni e dalla presenza di grandi star: il cast comprende, oltre a Matt Dillon e Uma Thurman (al terzo film con il regista nordeuropeo, qui in un piccolo ruolo), un placido Bruno Ganz, che regala al pubblico la sua ultima apparizione (nella sua lunga carriera ci sono Rohmer, Herzog, Wenders, che lo diresse ne’ L’amico americano, 1977, e ne’ Il cielo sopra Berlino, 1987). Ma se l’ossessione di Jack di costruire una casa con le sue mani si traduce in un’opera terrificante, riflesso delle proprie inquietudini, e inutile, resta da vedere se il ritorno di Lars von Trier, dopo cinque anni di silenzio, avrà un seguito, inaugurando una nuova stagione in cui il suo cinema cerebrale non si esaurisca in una sorta di manierismo.

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