Sequoia 07: la “favola” artistica di Alfredo Aceto

All’Istituto svizzero milanese, l’artista torinese ritorna sulle sue tematiche e ci mostra un lato privato grazie ad un racconto della nonna…

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_di Alessio Moitre

Peccato! Davvero peccato! Vorrei terminare con queste ermetiche parole ma verrei meno al ruolo, dunque argomento. All’Istituto svizzero di Milano, nello spazio dedicato agli eventi d’arte, arriva il contributo di Alfredo Aceto, torinese, classe 1991, nella forma della sua prima personale meneghina. E lo fa a suo modo, portandosi dietro il trasognato, l’imprevisto e il divertito sempre in una spiazzante selezione di concetti. Ma questo mondo è spietato, ci dev’essere logica persino nel calcolo fantasioso dei ricordi e nella loro trasposizione fisica.

La mostra dal titolo “Sequoia 07”  si basa su una storia della nonna, raccontatagli da bambino con un’aggiunta data dal genio dell’artista, un’attualizzazione accattivante data da una macchina, che aiuterebbe una donna su un cavallo bianco, a scortare alcuni giovani attraverso un tunnel di alberi. Una storia che germina nel nuovo contesto, riproponendosi però con diversa forza.

Da qui inizia il mio dispiacere. Perchè il mondo di Aceto è indubbiamente complesso e difficoltoso. Si alternano proposizioni creative e atti strafottenti, picchi di possibile ideologia a vuoti sentimentali estremi. E in questa esposizione si vedono tutti.

Alfredo pare ogni tanto uscire dalla sua condizione, portando all’esterno parti del pensato, espettorando opere, lacerti di lavori, bozzetti, frammenti. La codifica per il pubblico è un’altra faccenda però e comunque si avverte come gli sia severamente vietato invadere il complesso sinaptico dell’artista.

Il risultato è dunque una decontestualizzazione di oggetti (se prendiamo per buona la teoria che sostassero in un universo irreale), alcuni con spiccata formazione scultorea, disposti per impreziosire il contenitore espositivo, di dimensioni simili e dalla presentazione estetizzante.

Mostre di questo tenore possono essere ammirate a Torino, Milano in toto, Bologna, Roma, Palermo, Napoli e poi ci si incammina per le praterie del mondo, toccando le capitali principali europee, gli Stati Uniti, ci si lancia in Cina e si balza a Mosca, in un inesausto ed estatico amore per l’oggetto.

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Il ritorno al concetto ci salverà, e vari discepoli di questa teoria riempiono le librerie e i seminari, alcuni si spingono sui giornali ma il dato è ben diverso.

Nella mostra di Aceto la partenza era promettente, persin gagliarda ma poi è subentrato lo stesso Aceto ed è diventato tutto poco accessibile, soprattutto per quegli strani esseri chiamati spettatori ed allora come al solito le fotografie sono splendide, il sito dell’Istituto svizzero, complesso, mostra bene il risultato. La cartellonistica nei pressi dell’esposizione è di prim’ordine ma ormai pare che sia il luogo a giustificare l’artista: se avvenisse più spesso il contrario si potrebbe parlare di un riscatto, per noi e forse anche per l’arte italiana in generale. 

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