Mario Airò: un’esposizione “neolitica” da Vistamare Studio a Milano

Tra tubi d’ottone, candide calle e cucchiai di miele, nella sua ultima personale Mario Airò rievoca e suggerisce – forse in  maniera un po’ troppo criptica – una civiltà dell’Oro. 

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_di Alessio Moitre

Nel multidimensionale spazio della galleria milanese, si svela la mostra “Il mondo dei fanciulli ridenti”, personale dell’artista Mario Airò. Fin qui le note lieti perché il tarlo mi si insinua già nel comunicato, che leggo come sempre a visita espletata. Riporto fedelmente dal testo originale:

Il mondo dei  fanciulli ridenti è un’installazione ambientale, che pervade integralmente il piano superiore della galleria e prende spunto da una definizione felice utilizzata come titolo di un saggio, scritto da un archeologo inglese, sull’epoca neolitica e sull’idea di serenità”. Si prosegue “Epoca che , secondo alcune teorie, sembra aver contraddistinto quel lungo periodo altresì chiamato “età dell’oro”.

Il nostro si riferisce al Neolitico, che grazie alla sua rivoluzione tecnologica ha “generato un periodo di pace lunghissimo, uno dei momenti migliori per l’umanità sulla terra”.

 

Alla metà degli anni novanta datiamo l’uscita di “L’epoca dell’oro dell’umanità – cronache dal Paleolitico” del francese Jean Chavaillon ed è forse a lui che s’ispira l’artista ma travisandone il periodo, definito “dell’oro” per determinate condizioni esistenziali che proprio nel Neolitico  vengono stravolte dall’avvento della proprietà privata e di maggiori complessi urbani. Da questa base prende corpo il momento installativo, visibile in una uniforme distesa verde, tipica sia nel materiale che nella consistenza dei campi sportivi.

Al centro una forma scavata sul cursus di Stonehenge, una delle principali opere megalitiche della storia e utilizzata come osservatorio astronomico o tappa di un culto dei morti antichissimo (con cursus indichiamo in archeologica delle grandi strutture estese, soprattutto britanniche). Dalla sede parte un tubo d’ottone, terminante in una calla bianca. La descrizione di chi scrive spero abbia reso l’idea, che dal vivo è decisamente più modesta che nelle intenzioni.

Se a primo sguardo la piacevolezza estetica colpisce, anche per merito della struttura, nel concreto l’intenzione s’infrange dietro ad un’armonia che con il periodo indagato ha ben poco a che spartire, a parte adamitiche considerazioni sulla candida vita dei nostri lontanissimi avi, anche seguendo il percorso della fecondità della terra, riproposta in altra opera al piano inferiore del complesso. Nell’ambiente bottato e suggestivo, mucchi di terra si fanno notare sulla pavimentazione, sulla cima, tutti, recano un cucchiaio da miele, precedentemente imbevuto nel colore.

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Ricordano delle tascabili piramidi per via della forma,  sormontate dallo Zed o Djed egiziano, simbolo già per altro presente in epoca neolitica e auspicio di stabilità e vita eterna. Qui il senso per il visitatore è duro. Si va a tentoni ed il collegamento fecondativo con il sopra è prova visibile ma da temerari, di sicuro da addetti ai lavori che comunque per la maggioranza temo ritrovarsi in crisi senza il magico foglio della spiegazione. Completano il concetto due altre opere, nella parte superna. Un libro (titolo ben visibile “The Elegy of whiteness”): preda di svariate chiocciole ricreate e una superficie piana, a muro, con sopra un piccolo e tenero mollusco marino, da visionare bene con la lente (per altro fornita).