[INTERVISTA] L’universo parallelo delle Svalbard

Presentato al Museo del Cinema di Torino, il progetto multidisciplinare intitolato “Svalbard, la terra dove nessuno muore” racconta l’Arcipelago a 1300 km di distanza dal Polo Nord attraverso una “performance totale” in più atti che si completano e compenetrano tra loro, scandagliando le viscere di una terra solo apparentemente ostile e inaccessibile. Un viaggio in un “universo parallelo”. 

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_di Lorenzo Giannetti

“Svalbard, la terra dove nessuno muore” è una produzione del 2018 targata Il Mutamento Zona Castalia, che unisce un documentario a cura di Omar Bovenzi, un disco firmato dai Blind Cave Salamander e una pièce teatrale con Eliana Cantone e Gianni Colosimo (quest’ultimo in video) diretta da Giordano Vincenzo Amato.

Subito dopo la prima assoluta dello spettacolo nel tempio cinematografico sabaudo, abbiamo parlato del concept, dell’andamento e del futuro del progetto insieme al regista Omar Bovenzi e al musicista Fabrizio Modonese Palumbo. Dalla chiusura delle miniere all’apertura al turismo, dal senso di appartenenza alla sensazione di vivere in un luogo senza tempo – attraverso la narrazione in bilico tra musica e immagini – Svalbard si rivela al pubblico in maniera atipica e per certi versi inaspettata. Come si costruisce, nel concreto, un progetto così articolato ed ambizioso?

Partiamo dall’inizio. Siamo indubbiamente di fronte ad una location “outsider”: ma siete stati voi a trovare le Svalbard o le Svalbard a trovare voi? La conoscevate già prima di iniziare su questo progetto oppure l’avete scoperta in questi ultimi mesi?

Fabrizio: Sono sempre stato affascinato e volevo visitare l’artico, 3 anni fa  ne ho finalmente avuto la possibilità grazie ad una “vacanza di famiglia” col mio compagno Paul Beauchamp e mia madre, ed  è stato amore immediato, sentirsi per molti versi a casa, dopo un secondo viaggio l’anno successivo io e Paul abbiamo deciso di tradurre la nostra esperienza e sensazioni in una produzione artistica ed abbiamo così coinvolto Omar e Giordano coi quali avevamo già lavorato in precedenza, di li in poi è stato un effetto domino ed un lavoro di un anno.

Omar: Ho scoperto le Svalbard grazie a Fabrizio e Paul, che ci erano già stati due volte prima di quest’ultima. Il progetto è partito da Fabrizio, che voleva registrare un disco lì. Il progetto poi è diventato un qualcosa di più ampio, coinvolgendo prima Giordano e poi me. Ci siamo parlati, piaciuti e di conseguenza è partito tutto in maniera molto spontanea e naturale. Da settembre 2017, ovvero dal momento in cui abbiamo iniziato ad architettare il lavoro, non è passato molto tempo perché facessimo i biglietti.

«Direi che si tratta dell’esatto opposto di non-luogo: le emozioni che ho provato lì non le ho mai sentite da nessun’altra parte e ogni volta che ci penso ho le farfalle nello stomaco. Per questo nel documentario dico che ora siamo sicuri che esista un universo parallelo su questo pianeta»
Omar Bovenzi

In tal senso, una delle prime cose che viene messa in evidenza nel documentario è che in questo posto solo apparentemente “dimenticato da Dio” in realtà si sta investendo in turismo: quale è stata l’accoglienza che vi ha riservato Svalbard e i suoi cittadini?

F: A Longyearbyen si respira  un’atmosfera decisamente internazionale e nonostante sia una cittadina di solo 2000 persone il contesto sociale è estremamente  dinamico, e la città è strutturata per l’accoglienza e tutte le necessità dei suoi abitanti e visitatori. Insomma ci si sta bene.

O: Nel documentario si dice appunto che le Svalbard sono tutt’altro che un posto dimenticato da Dio. Longyearbyen è una piccola cittadina che conta poco più di duemila anime e da subito ti senti accolto. Non potrebbe essere altrimenti: al di là delle bellissime persone che abbiamo incontrato, ovviamente c’è anche un aspetto professionale. Dopo la quasi totale chiusura delle miniere di carbone, il turismo è la prima fonte di sostentamento dell’arcipelago e non essere accoglienti potrebbe essere una pessima idea, oltre che sbagliato a priori.

Entriamo un po’ nel dettaglio del vostro lavoro e del vostro modus operandi: come avete sviluppato questo progetto? Mi spiego meglio: avete pianificato tutto a priori oppure quello che abbiamo poi effettivamente visto al Museo del Cinema è “maturato” strada facendo? Insomma si è trattato di un work in progress o più di una sceneggiatura ben strutturata fin dalle prime battute?

F: Entrambe le cose, sarebbe stato impossibile lavorare con tempi e budget ristretti senza un’accurata pianificazione, poi ovviamente  artisticamente non ci siamo posti limiti ed abbiamo lasciato che fosse il lavoro stesso e le suggestioni raccolte a definire il prodotto finale, che comunque ancora  finale non è visto che stiamo proprio in questi giorni elaborando nuovi ed aggiuntivi materiali nonchè definendo le uscite discografiche relative al progetto.

O: La macrostruttura del lavoro nella sua interezza è stata chiaramente ampiamente progettata e discussa. Da subito insomma avevamo già in mente come sarebbe apparsa la nostra opera nella sua interezza. Chiaramente alcuni aspetti si sono modificati in corso d’opera, ma l’obiettivo finale era già chiarissimo.

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«Non esiste una cittadinanza delle Svalbard: è luogo di incontro, ci vivono cittadini di oltre 43 nazioni, i confini sono aperti. Ci sembra un modello che in questo periodo storico, tanto più in Italia e Stati Uniti, (ovvero le due nazioni da cui noi del progetto proveniamo) sia da studiare ed apprezzare»
Fabrizio Modonese Palumbo

Ancora più nel dettaglio: la parte musicale e quella video-documentaristica sono andate di pari passo mentre eravate in loco? Come vi siete organizzati e, ad esempio, come avete registrato?

F:Abbiamo affittato un adorabile appartamento con tre stanze  dove abbiamo vissuto, lavorato, cucinato, bevuto e giocato a domino assieme, e poi ovviamente passato molto tempo all’esterno incontrando persone e facendo escursioni in terra e mare  tra (e sotto) i ghiacci. Tutte le riprese sono state fatte in location, così come i field recording che sono alla base dell’album di Blind Cave Salamander ed il relativo concerto, i materiali poi si sono per  così dire trasfusi ed infiltrati gli uni negli altri, ovvero le musiche sono penetrate nel documentario e parte delle interviste fatte agli abitanti di Longyearbyen e la registarzione del coro dei minatori sono diventati elementi sonori dell’album e della performance.
Alle Svalbard il gruppo di lavoro era  costituito da me, Paul, Omar, i nostri amici di Xiu Xiu Jamie Stewart e Angela Seo, e Gianni Colosimo; ognuno ha  portato inputs e contenuti al lavoro.
Il tutto è stato poi editato ed elaborato a Torino con ulteriori contributi di Julia Kent e la scrittura e messa in scena dell’opera  teatrale ispirata di Giordano Vincenzo Amato con Eliana Cantone de Il Mutamento Zona Castalia che dell’intero progetto ha anche curato la produzione esecutiva.

O: Fabrizio e Paul hanno lavorato almeno quanto me in fase di ripresa, nello specifico Fabrizio potrebbe essere definito come un direttore di produzione mentre Paul ha curato tutto l’audio in presa diretta del documentario e del cortometraggio. Parallelamente a questo lavoro di supporto al mio (anche se messa così suona riduttiva), hanno chiaramente curato field recordings e quant’altro per l’album e la colonna sonora. Una volta tornati, il loro lavoro è proseguito in studio mentre io montavo il documentario. La verità? Non ho avuto bisogno di dirgli niente, il materiale che mi hanno fatto sentire era esattamente quello che avrei voluto, sia nel mood sia nella resa sonora.

Tornado al magnetismo di questa location, ricordo che durante la performance al Museo dei Cinema vi siete alzati in piedi durante l'”inno nazionale”: possiamo dire che quello che solo in apparenza potrebbe sembrare una sorta di non-luogo sospeso tra i ghiacci sia invece riuscito a creare in voi un forte senso di appartenenza? Vi siete sentiti parte di una sorta di ecosistema, per così dire? Nel documentario, ad esempio, si parla di Svalbard come di un luogo – non cito proprio alla lettera, perdonatemi – dove sembra davvero poter esistere una vita “parallela”.

No, non si tratta dell’inno nazionale, uno perchè mai faremmo una cosa simile, e poi tanto più che parte essenziale del nostro lavoro è proprio il mettere in evidenza che le Svalbard sono territorio sì amministrato dalla Norvegia, ma altrimenti internazionale, non esiste una cittadinanza delle Svalbard, è luogo di incontro, ci vivono cittadini di oltre 43 nazioni, i confini sono aperti, e ci sembra un modello che in questo periodo storico, tanto più in Italia e Stati Uniti (ovvero le due nazioni da cui noi di questo progetto proveniamo) sia da studiare ed apprezzare. La parte dello show in cui ci alziamo cantando assieme al coro pre-registrato dei minatori di Longyearbyen è anzi un invito alla convivialità, al condividere ciò che si ha, a bere dalla stessa bottiglia, al banchetto, “La Parte Che Avanza”, che infatti è diventato anche il titolo del documentario di Omar.

O: Il tempo lì è come sospeso, probabilmente anche per via della luce drasticamente diversa da quella europea continentale. All’una di notte sembrava che fossero le sei di mattina in Italia, per fare un esempio. Gli spostamenti avvenivano principalmente a piedi quando restavamo nel villaggio, altrimenti in macchina, in furgone o con il gatto delle nevi (tipo quando abbiamo girato le scene nella grotta di ghiaccio). Una delle giornate più belle è stata quella in barca. Ci sono stati momenti molto intensi, ti veniva da piangere o da abbracciare gli altri solo per la visione di ciò che ti circondava. Abbiamo alloggiato in un appartamento, i primi giorni con Angela e Jamie (Xiu Xiu) e poi con Gianni. Sono state giornate incredibili, aneddoti ce ne sarebbero molti da raccontare, dalle valigie mie e di Paul “smarrite” a Oslo e ritrovate a Longyearbyen, passando per barbe congelate, innumerevoli scivoloni sul ghiaccio, renne che ti camminano a fianco come i piccioni a Torino e interminabili partite a domino.
Il coro che abbiamo eseguito dal vivo si chiama “Halvan går” ed è un canto che potremmo definire popolare, utilizzato sopratutto durante i brindisi. È un canto svedese di metà Ottocento, scritto da Gunnar Wennerberg e che abbiamo conosciuto grazie al coro maschile delle Svalbard, lo Store Norske Mandskor. Le Svalbard sono un luogo potentissimo, sotto diversi punti di vista. Appena usciti dall’aeroporto ci siamo trovati davanti l’infinito, io non ho detto una parola per mezz’ora, più o meno sino a quando non siamo arrivati a casa. Direi quindi che si tratta dell’esatto opposto di non-luogo: le emozioni che ho provato lì non le ho mai sentite da nessun’altra parte e ogni volta che penso a quel luogo ho le farfalle nello stomaco. Per questo nel documentario dico che ora siamo sicuri che esista un universo parallelo su questo pianeta. In un certo senso, è vero che ti senti parte di un ecosistema altro rispetto a quello in cui sei abituato a vivere.

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Tirate fuori l’aneddoto più curioso/bizzarro di questa “vacanza di lavoro”!

F: È stato tutto molto rilassato, abbiamo avuto un solo momento “deviante” dove siamo stati percepiti per  motivi ad oggi misteriosi come antagonisti da un uomo che ci ha non molto cordialmente invitati ad allontanarci  uscendo da casa sua a dorso nudo mentre stavamo facendo delle riprese, credo sia stato un assoluto fraintendimento  ma non abbiamo avuto la possibilità di risolverlo, ma per il resto davvero tutto molto bene. 

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Omar, ho avuto la sensazione tu abbia voluto adottare uno stile molto “asciutto” nel documentario, “artico” verrebbe da dire; per poi invece giocare di più nei visual della performance. A livello strettamente stilistico, come hai costruito le due “visioni”?

Il luogo mi ha aiutato molto nella creazione delle immagini e delle inquadrature, inoltre io personalmente ho un stile abbastanza semplice, mi piacciono la pulizia dell’immagine e le inquadrature fisse. Il documentario è stato girato in diverse location, mentre i visual praticamente solo sulla barca che ci ha portati quasi a Pyramiden (oltre a del girato di Angela Seo in un’escursione con i cani slitta). La grossa differenza fra documentario e visual è che il primo è un lavoro scritto, girato, montato e chiuso mentre i visual saranno diversi a ogni live, visto che, al di là di alcune linee guida concordate anche con Fabrizio e Paul, sono sostanzialmente improvvisazione in immagini. Con i visual è un po’ come se suonassi anch’io.

Pensate di “far il bis”, magari sempre con questo team di lavoro? Se poteste scegliere un posto qualunque del pianeta dove vi piacerebbe poter ripetere questo tipo di esperienza?

F: Antartica  ovviamente.

O: Non è da escludere, ma è ancora presto per poterlo dire. Non saprei indicarti un luogo però.

Dopo il battesimo del tempio del Cinema, come porterete in giro questo lavoro? Sono previste altre date?

F: Stiamo lavorando per portare il lavoro nel suo insieme e/o parzialemente in tour per L’Europa e auspicabilmente anche  presentarlo proprio a Longyearbyen dove è nato.

O: Sin dall’inizio abbiamo concepito il lavoro a moduli, ma ovviamente vogliamo portarlo in giro il più possibile nella sua interezza. Stiamo cercando di portare il lavoro in più posti possibili. La prossima replica sarà il 23 novembre al Nuovo Teatro delle Commedie di Livorno. Il sogno sarebbe presentarlo a Longyearbyen.

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Chiudiamo con un divertissement. Devo partire per Svalbard: 3 cose che devo per forza mettere in valigia.

F: Guanti, calzettoni e cappello, ma  puoi anche comprarli li, più che altro assicurati di avere Aquavit ed il Norwegian Brown cheese  nella valigia al ritorno.

O: Vestiti pesanti, macchina fotografica e il disco di Blind Cave Salamander.

 

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