Festa del Cinema di Roma 2018: il racconto di un’edizione militante

È passato qualche giorno dalla fine della Festa del cinema di Roma e, come cantava De Gregori, qualcosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure. La 13ª edizione si è ufficialmente conclusa, sempre sotto la direzione artistica di Antonio Monda e, anche per quest’anno, non ci sono cerimonie e concorsi ma viene assegnato soltanto il premio del pubblico BNL che è andato a un film tutto italiano: Il vizio della speranza, di Edoardo De Angelis. 

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_di Mariapia Fumarola


Astenendoci da qualsiasi tipo di giudizio su questa vittoria o dalla semplice disamina dei film presentati al festival, sembra molto più interessante invece un altro aspetto molto evidente in questa edizione, anche più degli anni precedenti.
La Festa ha sempre una nota politica in sottofondo ma quest’anno più che un sottofondo era una vera e propria colonna sonora. Fahrenheit 11/9, Green Book, The hate u give, If Beale Street could talk, Monsters and men, Jan Palach: film che devono essere guardati con tutta l’attenzione che meritano anche soltanto per il tema trattato.

Sceglieremo qui tre di questi film che, rispetto agli altri, lasciano il segno per il modo in cui si è scelto di affrontare argomenti delicati.

Partiamo da Fahrenheit 11/9 di Michael Moore.

La sua fama lo precede: dall’esordio con Roger and me fino al documentario del 2016 Michael Moore in Trumpland, il linguaggio utilizzato dal regista è sempre peculiare e molto esplicito. Anche per quest’opera non delude e, dopo Fahrenheit 9/11, si concentra su un’altra data famigerata: l’elezione di Donald Trump come 45esimo presidente degli Stati Uniti, il nove novembre del 2016. Ad essere presa di mira non è soltanto l’amministrazione statunitense ma anche l’operato dei Democratici (e del precedente governo Obama) e dei Repubblicani. Nessuno si salva e, chi avrebbe dovuto operare per un cambiamento o per evitare che ciò accadesse, non ha fatto nulla per impedirlo. Nessuno ha preso sul serio la volontà di Trump di salire al governo e invece, tra risate e prese in giro e tutti i “it will never happen” affermati con leggerezza in TV, è successo. L’annuncio “Ladies and gentleman, the last president of the United States” col volto di Trump in primo piano arriva come un memento mori e tra bugie, razzismo, ingiustizie, misoginia, omofobia, armi, i nervi sono a fior di pelle mentre si assiste al lento declino della democrazia e a tutti i tasselli del puzzle che hanno portato alla sua disfatta. La verità brucia per lo spettatore, anche per lo spettatore italiano che forse non vede questa storia così lontana da quella del suo Paese.

Quando compare sullo schermo la scritta su un cartellone apparsa durante una manifestazione filo-trumpiana “hey liberals better get your guns if you try to impeach president Trump”, gli occhi stentano a credere che qualcuno possa partorire una frase del genere. Invece è successo e succede ogni giorno.

A prescindere da qualunque parere politico, vale assolutamente la pena guardare Fahrenheit 11/9 innanzitutto per il suo valore documentale, per essere informati su ciò che è accaduto finora e su una situazione politica che ci riguarda più di quanto crediamo. Poi per il linguaggio utilizzato da Michael Moore. Il regista, già vincitore del premio oscar nel 2003 per Bowling a Columbine e della Palma d’oro al Festival di Cannes nel 2004 per Fahrenheit 9/11 (documentario anti-Bush da cui riprende il titolo), non utilizza mezzi termini, il suo stile di denuncia irriverente e acuto fa da padrone anche in questo lavoro. Moore ci mette la faccia e mostra un’America diversa da quella del sogno americano, un’America violenta e che odia il “diverso”.

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Michael Moore

Gli altri due film invece sono If Beale Street could talk di Barry Jenkins e The hate u give di George Tillman Jr.

L’associazione di questi due film deriva dalla scelta, da parte dei registi, del tema trattato, ovvero il razzismo per il colore della pelle e la violenza e ingiustizia da parte della polizia americana (anche questo argomento per niente lontano dalle recenti vicende italiane).

In If Beale Street could talk siamo negli anni Settanta, in un quartiere di Manhattan. Protagonisti sono due ragazzi uniti da sempre: Tish e Fonny. Quando lui viene arrestato per un crimine che non ha commesso, Tish si ritrova da sola ad affrontare la maternità e, con il supporto della sua famiglia, tenta in qualsiasi modo di aiutare il suo ragazzo ad essere scagionato.
Come il regista aveva già fatto per Moonlight nel 2016, vincendo l’Oscar, la storia d’amore tra i due ragazzi è sfiorata con delicatezza. Il regista si prende cura della protagonista, la abbraccia, la riscalda, con i movimenti della macchina da presa non la lascia sola per un attimo, sembra quasi sostituirsi a Fonny. Si fa presenza costante ed è proprio questa presenza che ci lega a lei senza che ce ne rendiamo conto e senza poter fare nulla per impedirlo. E, anche nelle scene che mostrano la relazione tra i due ragazzi, c’è sempre una cura e un’attenzione costante per la protagonista, per ciò che prova, che spera, che desidera. Ci immedesimiamo nella storia con semplicità, passando dalla storia principale ai racconti di Tish sul loro legame, trasportati dall’atmosfera sognante e romantica del film. Ed è il dolore di Tish per l’assenza della persona amata che diventa quasi insostenibile anche per noi che, nel buio della sala, vorremmo squarciare quell’intima finzione per intervenire e fermare l’ingiustizia in corso. Per ridare poesia e colore alla realtà.
Così capiamo bene quanto le lacrime di chi subisce questo trattamento da un lato feriscano ma dall’altro diano la forza di lottare.

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If Beale Street could talk di Barry Jenkins

Proprio le lacrime e la forza di lottare ci portano all’ultimo dei tre film scelti: The hate u give, altra sorpresa di questa festa del cinema.

Il titolo si rifà all’acronimo inventato da 2Pac, T.H.U.G. Life, ovvero “The hate you give little infants fucks everybody”, che letteralmente significa “l’odio che dai ai bambini fotte tutti” e fa riferimento alla vita di chi riesce ad emergere, pur partendo da zero.
Dopo queste premesse necessarie, il cuore del film si fa più chiaro. Protagonista è Starr, ragazza divisa tra due mondi: quello bianco e ricco dei suoi compagni di scuola e quello povero e nero in cui si trova il suo quartiere. Questo fragile equilibrio è destinato a rompersi e ciò accade quando Starr assiste all’omicidio di un suo amico d’infanzia da parte della polizia. Questo il punto di partenza per raccontare un’ingiustizia lunga un’eternità ormai e alla quale Starr cerca di opporsi con tutte le sue forze, partecipando a manifestazioni non violente insieme al suo quartiere. Tratto dall’omonimo bestseller per ragazzi, il film è spiazzante nel suo linguaggio fresco e audace. Dalle canzoni di Pusha T, Kendrick Lamar, Travis Scott, 21 Savage e altri ancora si passa alla musica delle voci di chi protesta per avere giustizia. Le urla rimbalzano nel petto e la rabbia sale, niente brucia come l’umiliazione e l’ingiustizia, perciò empatizzare con questi sentimenti è semplice e un po’ doloroso.

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Il vizio della speranza, di Edoardo De Angelis.

Vita, politica, film e nient’altro. Come ha detto Isabelle Huppert, ospite alle Festa del Cinema per la consegna del premio alla carriera:

“Il cinema è una finestra sul mondo. È sempre più politico, per molto tempo era stato intrattenimento ora lo è in modo diverso”

Non bisogna sottovalutare l’importanza di un mezzo come il cinema in un’era in cui siamo bombardati da informazioni e messaggi sbagliati.