Searching: un thriller con l’ambizione di farci seguire le indagini dallo schermo del laptop…

Un thriller che mescola una narrazione moderna (ma non necessariamente innovativa) ai plot twists classici del genere. Vi costringerà a guardare impotenti lo schermo di un pc gestito da un altro, per un paio d’ore. In pratica è come quella volta che il professore non riusciva a far partire le slides e gli si sono aperte le foto delle vacanze, ma non fa così paura._

_di Simone Glorioso

David Kim, meglio noto al grande pubblico come il capitano Sulu o “il cinese del primo American Pie”, è un buon padre di famiglia con una malsana ossessione per il regolare svuotamento della pattumiera della cucina. Dopo la triste dipartita della moglie Pam, avvenuta un paio d’anni prima dell’inizio della vicenda ed elaborata malino, convive con la figlia Margot. Quando quest’ultima sparisce, il premuroso David allerta la polizia di San Jose: al suo caso viene assegnata la detective Grace di Will&Grace, che qui pretende di chiamarsi Vick. Al compassatamente frastornato David viene richiesto di farsi i fatti di sua figlia. Fortunatamente, i suoi account sono protetti da password tipo “Margot1234”: poca roba per uno che ha preso la patente per guidare i mezzi potentissimi nello spazio.

Da queste premesse scaturisce un’indagine che – “coraggiosa ricerca di un nuovo ed audace modo di narrazione!!!” – seguiamo tutta dagli schermi dei laptop dei protagonisti. Roba da doversi rimettere apposto la mandibola per lo stupore, davvero. Ma badate di conservare un po’ di espressioni sconvolte per dopo: i plot twists abbondano, per fortuna, e non sono sempre banali. Inoltre, questo film ha senz’altro un merito: mostrare cosa succede se ti sparisce la figlia e non sei Liam Neeson.

I tratti da thriller classico di “Searching” ricordano quello dei film che riempivano la programmazione di “nel segno del giallo” su Rai Due: ora che sapete come ho trascorso i miei sabati sera fino alla veneranda età di dieci anni, spero mi scuserete per quello che scrivo.  Il contraltare moderno di questo elemento tradizionale, ossia la scelta di narrare la vicenda attraverso la visuale dello schermo del laptop dei protagonisti e le immagini riprese dalle loro webcam – per quanto portata avanti meglio e più in profondità che altrove – non ha quel gusto di nuovo che la stragrande maggioranza delle recensioni vorrebbe attribuirle, e parrebbe più che altro pensata per distinguere questa pellicola da quei millemila gialli più o meno belli che popolano i momenti di noia in cui non si ha la forza di raggiungere il telecomando per cambiare canale.

La prospettiva dello schermo funziona bene, forse per l’opposizione tra il carattere asettico del mezzo virtuale e quello struggente della vicenda, finché la narrazione si sofferma sulla malattia e la dipartita di Pam, la moglie del protagonista. Quando, però, il focus si sposta sulle più dinamiche operazioni di ricerca, risulta un po’ limitante e rende lo scorrere della vicenda un po’ farraginoso.

La recitazione del contenutissimo John Cho – lo preferivo quando pisciava in testa a Stiffler – contribuisce a far perdere allo spettatore la proverbiale concentrazione à la Toninelli. Per fortuna c’è la parte più classica, con le evoluzioni contorte di una trama che, almeno in un paio di momenti, è efficace nel creare un effetto sorpresa piacevole ed inaspettato proprio quando ci si era rassegnati alla piattezza della prevedibilità, tipo trovare parcheggio in centro il sabato sera quando ormai ci si è rassegnati a dirottare la cosa dal porcaro. Ma io il sabato sera guardo thriller improbabili, aspetto la voce rassicurante della vecchietta di “Un giorno in pretura” e rimpiango i bei tempi di “Nel segno del giallo”. Quindi, in fondo, che ne so?

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VOTO: 3 pugnali sanguinolenti su 5 o 6; una roba a metà, ecco.  

NOTE: da guardarsi con gli amici in un clima di gioviale ilarità, con il Ciobar sempre troppo liquido ed una tempesta assai coreografica che sferza gli infissi ermeticamente chiusi.