La nuova stagione del Cinema Ritrovato al Massimo riparte con Toro Scatenato

Presentato al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna lo scorso giugno, il restauro del cult-movie di Martin Scorsese (vincitore di due premi Oscar nel 1981) è approdato a settembre al Cinema Massimo, dove verrà proiettato ancora in tre date ad ottobre. Riparte così il progetto che propone grandi classici restaurati, unendo in un’ormai rodata collaborazione il Museo Nazionale del Cinema di Torino e la Cineteca di Bologna.

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_di Alberto Vigolungo 

La Storia del cinema è piena zeppa di incontri con la “nobile arte” fin dalle origini, specialmente negli Stati Uniti, dove nella prima metà del XX secolo il pugilato raggiunse picchi di popolarità altissimi, trasformandosi rapidamente da fenomeno sociale a metafora stessa del Sogno americano. In epoca più recente, alla boxe sono state dedicate alcune delle pellicole di maggior successo al botteghino, dalla saga di Rocky Balboa al suo spin-off Creed – Nato per combattere (2016), realizzato esattamente quarant’anni dopo il film che aprì a Stallone la strada del successo. Cinema, ma non solo: la figura del pugile quale emblema dell’antieroe contemporaneo, in lotta con il mondo ma soprattutto con se stesso, è stato il soggetto privilegiato di molta letteratura, con Hemingway che ne fece il protagonista di uno dei suoi racconti più famosi, Cinquanta bigliettoni (Fifty Grand, 1927), senza dimenticare il nostalgico Robert Cohn di Fiesta – Il sole sorge ancora (The Sun also Rises, 1926).

All’alba degli anni Ottanta, Martin Scorsese è alle prese con una delle sue più profonde crisi creative, alimentata anche dai turbamenti personali seguiti alla fine del matrimonio e al consumo di droghe. Sentitosi giunto al capolinea ad appena trentotto anni, il regista newyorchese decide di convogliare le energie rimaste in un ultimo film: chiama a sé i collaboratori più fidati, tra i quali la montatrice Thelma Schoonmaker e quel Paul Schrader che aveva firmato la sceneggiatura di Taxi Driver quattro anni prima; torna a lavorare con Robert De Niro, pronto a trasformarsi in animale da combattimento per un film che Scorsese vuole brutale, “estremo” fin dalle premesse.

Un’opera che renda omaggio al cinema e alla sua “conditio sine qua non”: il movimento.

Girato in un bellissimo bianco e nero, Toro scatenato rievoca le gesta di un incredibile sportivo, Jake La Motta, in un arco temporale compreso tra l’inizio degli anni Quaranta, che vedono la crescita inarrestabile di questo pugile dei pesi medi capace di totalizzare in tutta la sua carriera ben 83 vittorie (di cui 30 per knock-out),  alla vittoria del titolo mondiale di categoria nel 1949 ai danni del grande boxeur francese Marcel Cerdan, alla caduta repentina nei primi anni Cinquanta e al ritiro, fino alle avventure imprenditoriali, che consistono perlopiù nella gestione di alcuni locali notturni a New York prima e in Florida poi, intervallate da bancarotta e carcere (prima metà dei Sessanta). Una vita post-ring che il pugile del Bronx di origini italiane non condividerà con la famiglia e gli amici più stretti, che La Motta aveva amato e al tempo stesso colpito più duro dei suoi stessi avversari: il fallimento del matrimonio con la moglie Vickie e l’abbandono del fratello-manager Joey sono conseguenze dirette delle nevrosi e dell’egocentrismo di un uomo possessivo, tanto audace negli incontri che gli diedero fama e ricchezza quanto fragile nei rapporti privati, incapace di domare la sua furia distruttiva al di fuori del ring.

De Niro insieme a Joe Pesci

L’intento “estremo” di Scorsese si manifesta a partire dalla scelta del cineasta di confrontarsi con un genere, quello del “biopic” (il soggetto è adattato all’autobiografia pubblicata da La Motta nel 1970, Raging Bull: My Story), apparentemente il più distante da una certa idea di autorialità della quale Scorsese, De Palma, Cimino, Spielberg e Lucas erano stati fieri paladini nella Hollywood di allora.

Nella figura vulcanica di Jake La Motta il regista non rinuncia ad esprimere una visione precisa della vita e del cinema, che non cela l’amarezza per un mondo che vive di gloria riflessa, perennemente rivolto all’autocelebrazione: la mette in chiaro fin dalla prima scena, in cui appare un La Motta vecchio, ingrassato, vestito da mattatore nel suo camerino, mentre recita allo specchio il monologo solitario di un lupo dello spettacolo, per cui il palcoscenico non può che essere l’ambiente ideale dopo il ring. Un uomo irrimediabilmente imprigionato nel suo mito, pronto ad entrare in scena e animare la serata di personaggi del Jet set che non possono mancare ad un appuntamento mondano, anche se del pugile imbattibile di quasi vent’anni prima rimane soltanto l’ombra.

Ciò che proietta maggiormente il film oltre i convenzionali steccati di genere è senza dubbio la sua abilità nel giocare con registri diversi, dalla celebrazione della forza (imposta dalle luci della ribalta, a quei tempi sensibilissime al personaggio) alla quotidianità del protagonista, fatta di ansie e preoccupazioni delle quali il suo manager, Joey, è il confidente più fidato, prima di finire anch’egli risucchiato nell’occhio del ciclone psichico del pugile: si ricordi, a tal proposito, la scena di conversazione tra i due nel soggiorno di casa La Motta, filmata in campi e controcampi nei quali la figura di Jake è accostata ad un televisore a schermo bianco che anticipa il black-out mentale del personaggio, in un crescendo di insinuazioni che porteranno alla violenza fisica.

Toro scatenato è anche l’opera che porta agli estremi l’elemento del linguaggio preferito da Scorsese, il movimento della macchina da presa.

La cinecamera si fa inarrestabile moltiplicatrice di immagini animate da movimenti vorticosi, giustificando appieno le parole del regista, quando afferma di aver girato questo film “come un kamikaze”. Questo aspetto del filmico tocca i vertici espressivi più importanti nelle sequenze di boxe, girate anche con l’ausilio della steady-cam, raggiungendo una resa tale da far invidia a tanti film d’azione contemporanei, girati da registi che hanno a disposizione un armamentario tecnologico decisamente superiore rispetto a quello su cui poteva contare Scorsese quasi quarant’anni fa: per un confronto in ambito pugilistico, si pensi al già citato Creed di Ryan Coogler (il cui sequel è atteso nelle sale italiane a gennaio), o, per restare  in quegli stessi anni, al primo Rocky diretto da John Avildsen (1976), uno dei primi in cui la steady-cam fece la sua comparsa.

Quest’uso “energico” della macchina da presa, combinato ad un montaggio serratissimo (Thelma Schoonmaker è premiata con l’Oscar per il suo lavoro), è ben presente anche in sequenze lontanissime dalla fatica del combattimento e della prova fisica, costituendo così un filmico davvero caratterizzante del personaggio, della sua visione del mondo, quindi del suo approccio nei confronti della realtà: un dinamismo che sfocia a tratti nella vertigine e che si accompagna efficacemente all’instabilità caratteriale di personaggi dei quali De Niro è illustre interprete.

Un dinamismo che, è bene chiarire, non è necessariamente prodotto dai volteggi della cinecamera. Ne è prova la scena in cui Jake, recatosi alla piscina del quartiere per un po’ di relax dopo un litigio con la moglie, vede per la prima volta la ragazza con la quale condividerà gli anni della sua ascesa sportiva e la famiglia, la bionda Vickie. Tutta la scena, basata su una sostanziale fissità della macchina da presa (a cui si adegua il profilmico, ma non certo il montaggio), e dominata da una serie di tre piani ravvicinati montati in alternanza che comprendono rispettivamente Jake e il fratello, la giovane (enunciata in un bellissimo primo piano, leggermente di profilo) e altri uomini che la guardano, ha inizio con un vertiginoso movimento di macchina che discende una parete di mattoni scuri, fino al luogo vero e proprio.

I primi piani della ragazza, interposti tra quelli di uomini bramosi, alimentano un procedimento che non fa altro che sottolineare il carattere morboso del protagonista. Questa combinazione di primi piani alternati è impiegata, seppure in altro modo, anche nelle sequenze di boxe, enfatizzando la furia di La Motta sul ring: confrontando le due sequenze, notiamo così come brama di possesso e distruzione siano rappresentate attraverso una scelta di regia ben precisa, unite in un’unica soluzione. La differenza consiste nel fatto che nella prima Scorsese lascia da parte i movimenti di macchina, affidando il dinamismo della scena unicamente al montaggio, che tesse la trama morbosa di un gioco di sguardi.

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Cathy Moriarty nella scena della piscina

Toro scatenato sarà ben lungi dall’essere l’ultimo film di Scorsese: sensibile al fascino di questo sport che ha avuto nel Madison Square Garden di New York (il cui nome leggendario veniva scandito da speaker radiofonici capaci di tener svegli la notte anche gli appassionati nostrani) il suo tempio, oltre che casa dei Knicks, il regista realizza un’opera che, concepita come testamento cinematografico perché così densa del sua esperienza di cineasta, segnerà la sua rinascita e varrà l’Oscar come migliore attore protagonista a Robert De Niro, in quegli anni alle prese con i suoi ruoli drammatici più importanti (si ricordi il Mike de’ Il cacciatore, diretto da Michael Cimino nel 1978, oltre all’iconico Travis Bickle di Taxi Driver) e del quale lo stesso La Motta, chiamato sul set a “plasmare” il ragazzo, disse che avrebbe davvero potuto combattere in un incontro di boxe. Detto da un uomo dall’Ego simile, si poteva ben credergli.

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De Niro con il vero Jake LaMotta

Il film di Martin Scorsese verrà proiettato in tre serate ancora ad ottobre. Ecco i prossimi appuntamenti al Cinema Massimo con i classici restaurati dalla Cineteca di Bologna:

C’era una volta il West (S. Leone, 1968)

Il settimo sigillo (I. Bergman, 1957)

L’appartamento (B. Wilder, 1960)

Gli uccelli (A. Hitchcock, 1963)

Ladri di biciclette (V. De Sica, 1948)

Jules et Jim (F. Truffaut, 1962)

 

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