Il flamenco “gordo” delle origini: Pastora Baila a Venezia

Canto, musica e ballo. Tutti qui ciò che serve per trasformare l’elegante e silenzioso teatro Goldoni di Venezia, in un rumoroso e scomposto tablao andaluso, con un pubblico travolto dal gordo e sensuale spirito flamenco. Ed è ciò che capita se ad essere messo in scena è il flamenco puro di Pastora Galvàn nel suo Pastora Baila! Non resta che dire “olè!”.


_di Valentina Matilde De Carlo

Se pensavi che il flamenco fosse solo rumore di tacchi che picchiettano il suolo, braccia che si intrecciano nel cielo, gonne che in mille balze toccano terra e aria seriosa, ti sbagliavi. O meglio, conoscevi solo un faccia del flamenco, quella forse più rappresentata sui palcoscenici quella più teatralizzata, alta e sublime. Ma poi ci sono quelle occasioni in cui tutte le aspettative vengono frantumate e spazzate via in un battito di ciglia, o in questo caso di palmas. E per fortuna!  Lo spettacolo Pastora Baila!, assolo di baile flamenco della ballerina andalusa Pastora Galvàn, è una di queste.

Accompagnata al canto da Cristian Guerrero, alla chitarra da Ramon Amador e alle palmas da Bobote, per la rassegna di danza del Teatro Stabile del Veneto, Evoluzioni, in un teatro Goldoni di Venezia che fino ad un momento fa bruciava per l’improvvisa calura estiva, Pastora aggiunge fuoco al fuoco, facendo arrivare a tutti il calore travolgente del flamenco. Un arrivo spiazzante: vestito corto con grembiule, da perfetta matrona spagnola, scarpette basse senza tacchi, e, appena inizia a muoversi, scompostezza oltre misura, frenesia, giocosa sensualità, fame… Fame di gioia, di allegria, di vita.

È il flamenco puro questo, quello delle origini, della terra e della carne, quello gordo, goloso, che ti rapisce gli occhi e il cuore, mentre le anche, le braccia e le mani della ballerina raccolgono sentimenti da cielo e terra, li abbracciano per poi riversarli sul pubblico, che partecipa, insieme ai cantaores, con le esclamazioni incitanti tipiche di un tablao flamenco. Quegli ole che salgono da dentro quando il baile va in crescendo fino al suo apice liberatorio.

Un flamenco inusuale per il palco, ma tanto più sincero, che ci porta indietro nel tempo e ci fa affacciare sulle origini di questa danza, che affonda le sue radici nelle diverse tradizioni, nelle diverse religioni e nella fatica quotidiana della vita dei gitani.

Un attimo dopo tutto cambia di nuovo. Non appena Pastora calza le scarpe flamenche e cambia abito, tutto in lei si trasforma e diventa un’altra ballerina, un’altra artista, un’altra donna. Sempre appassionata, ma seria, composta, ma sinuosa. Ancora più precisa nei dettagli, scalpitante, (adesso si!) negli zapateados, le parti del ballo forse più note del flamenco, dove i piedi suonano sul pavimento, componendo una musica tutta loro, che si inserisce nel fiume in piena della musica della chiatarra.

Frammento dopo frammento, lo spettacolo è cucito addosso a Pastora come una seconda pelle e mentre lei continua la sua danza, ora triste, ora gioiosa, ora tetra, ora ardente; noi, senza accorgercene siamo stati rapiti dallo spirito del flamenco, e viaggiamo sul filo dei pensieri e delle emozioni che esso ci suscita, battendo mani e piedi, ci scrolliamo di dosso ansie, doveri, preoccupazioni e come sotto una doccia di sensazioni uniche, ci occupiamo solo di non occuparci di nulla, vivendo in una bolla estemporanea di totale libertà, esattamente ciò che è il flamenco…

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“Essere flamenco è avere un’altra carne, un’altra anima, altre passioni, un’altra pelle, altri istinti, desideri; é avere un’altra visione del mondo con il senso del grande; il destino nella coscienza, la musica nei nervi, fierezza indipendente, allegria con lacrime; é il dolore, la vita è l’amore che incupiscono. Essere flamenchi è odiare la routine e il metodo che castra; immergersi nel canto, nel vino e nei baci; trasformare la vita in un’arte sottile, capricciosa e libera; senza accettare le catene della mediocrità; giocarsi tutto in una scommessa; assaporarsi, darsi, sentirsi, vivere. Questo!”  –  Tomas Borràs