“The Scope of Separation”: eredità della tradizione e dissidi generazionali nella Cina di oggi

L’esordiente Yue Chen approda al TFF con un delicato spaccato esistenziale sulla realtà della gioventù media cinese ai tempi di Xi Jinping, in bilico fra consapevolezza della tradizione e speranze per il futuro. Alla conferenza stampa di presentazione, accanto al regista, c’era l’attore protagonista Liu Shidong, che ha raccontato del rapporto speciale con il suo personaggio.

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_di Alberto Vigolungo

Il Dong Film Fest aveva offerto più di qualche spunto. La locandina dell’evento che si è tenuto a Torino lo scorso Ottobre lasciava pochi dubbi sulla direzione intrapresa da un certo cinema indipendente cinese: “A Cinematic View into Contemporary China by New Directors.” Nuove autorialità impegnate a cogliere le trasformazioni della società cinese di questi ultimi anni, prediligendo la forma del lungometraggio a soggetto di cui Jia Zhang-ke e altri cineasti della “Nuova scuola” erano stati i maggiori esponenti nei primi anni Zero, con uno sguardo verso il documentario sociale, soprattutto dal punto di vista delle tecniche di ripresa. In questo contesto va a inserirsi l’opera prima di Yue Chen, ventisettenne originario dello Shanxi, il quale rielabora istanze tipiche di quel cinema in un discorso narrativo frammentato, che fluisce con toni intimi, “The Scope of Separation” racconta il cammino esistenziale di un giovane senza prospettive il quale, attraverso incontri fugaci, chiacchierate, tempi morti condivisi con partner più o meno occasionali, giunge a una maggiore autoconsapevolezza. Il tutto, confidato con il tono di chi parla di un passato non troppo lontano.

Nel film, il confronto di Liu con il mondo esterno passa principalmente per gli incontri con persone animate da un’ambizione particolare: il primo è quello con Yuzi, una ragazza che si trasferirà a Canton senza più lasciare traccia di sé prima di ricomparire nel finale, il secondo con Yao Ye, con la quale instaura un legame più forte, sciolto inesorabilmente dalle ambizioni di lei, gli studi universitari a Pechino, il progetto di una vacanza in Francia. Personaggi che escono dalla vita di Liu con la stessa velocità con cui sono entrati, proprio come le sue fragili concezioni sull’esistenza. Le prime inquadrature introducono immediatamente lo spettatore nel “mood” languido e dolente del film, accompagnate dalla voce narrante di Liu, che racconta di sé: la morte del padre, l’adolescenza, i giorni trascorsi a spacciarsi per qualcuno che non è. L’evanescenza di questo personaggio è suggerita soprattutto dalla presenza del fumo, consumato spesso e volentieri in ambienti chiusi, e che occupa insistentemente buona parte delle inquadrature del film.

Questo senso di scollamento fra l’io e il mondo esterno, la difficoltà a fissare dei riferimenti è evidenziato da precise idee sotto il profilo della messa in quadro, specie nella scelta dei piani, che rafforzano questa dicotomia; da un lato, i dialoghi, i momenti di intimità filmati a lungo attraverso piani ravvicinati, dall’altro le inquadrature in campo lungo che ritraggono vedute tipiche di una metropoli della Cina settentrionale: gruppi di grattacieli che si ergono a macchia di leopardo, sopraelevate, enormi piazzali di cemento desolati… E’ il confronto con l’universo femminile ad indicare un barlume nell’esistenza meschina di Liu: il frammento più grosso riguarda infatti il rapporto fra il protagonista e Yao Ye, rappresentata lungo tutta la sua parabola, dall’incontro in uno dei tanti bar, alle cene in piccoli ristoranti anonimi e poco frequentati, fino alle passeggiate costellate da pause e silenzi che non allontanano quel senso di precarietà che segna un po’ tutta la loro storia, personale e “di coppia”.

Alla fine, Ye mantiene fede ai suoi progetti e si trasferisce a Pechino per inseguire i propri obiettivi. Cosa che Liu sapeva bene, del resto. La loro relazione si chiude nello stesso modo in cui era cominciata: un rapido saluto, la porta di un taxi che si chiude, il rombo del motore che riparte, Liu sul bordo del marciapiede di un viale illuminato a neon nel gelo di una notte invernale.

“In fondo, Ye mi aveva fatto ancora vegetare nella mia esistenza mediocre.” Con queste parole, il protagonista tenta di afferrare il senso della sua relazione, quasi a stigmatizzare la ferita procurata da un abbandono. In seguito, Liu giungerà ad una consapevolezza più piena, che passa attraverso il coinvolgimento in un importante progetto di lavoro e il tentativo di recuperare l’amicizia con Yuzi, la prima ragazza che aveva conosciuto e della quale aveva perso ogni traccia. Come aveva fatto la stessa prima di lui, anche il ragazzo arriva a riconoscere le proprie ambizioni nella realizzazione professionale, quindi nella ricerca di una sicurezza economica:

“Ho capito che cosa desideravo: una vita senza povertà. I soldi per me sono importanti.” In questa verità Liu trova il senso della sua esistenza, il punto di rottura con il suo passato. Il raggiungimento di un compromesso, che significa l’ingresso nella vita adulta.

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Muovendo dal piano di una sceneggiatura minimale (da un punto di vista narrativo, il film conosce un’accelerazione soltanto nella seconda parte), “The Scope of Separation” apre ad una riflessione sulla condizione delle nuove generazioni, immenso potenziale per un Paese che ha ormai in mano le redini dell’economia mondiale. Se il XIX Congresso del Partito Comunista ha celebrato i progressi politico-economici degli ultimi venti-venticinque anni, dando l’impressione di un Paese saldamente in mano al regime, la Cina resta oggi uno dei Paesi caratterizzati da un alto tasso di disuguaglianze (davanti persino agli Stati Uniti), dove si concentrano importanti fenomeni migratori verso Est, come evidenziava qualche tempo fa un reportage del TG2.

È nell’esplorazione di questi interstizi, nel non raccontato, che si sofferma lo sguardo di Yue Chen, il quale non nega un certo intento sociale del film. Una ricerca che l’ha riguardato molto da vicino, essendo parte di questa generazione. Nell’opera temi comuni come il denaro e l’ambizione si declinano in una realtà nella quale il riconoscimento sociale diventa non solo un obiettivo importante, ma l’unico. Il tutto in un contesto in cui l’eredità della tradizione è ancora avvertita con forza. Pur sottolineando questa vocazione della pellicola, Yue Chen non rinuncia all’elemento comico, che anima una ricerca costante tanto nella sua vita quanto nel lavoro. Anche in questa chiave, dal punto di vista delle influenze, gli viene accostato il primo Woody Allen (vedi “Manhattan”) e, per altri aspetti, Hou Hsiao Hsien. Durante la conferenza stampa di presentazione, il regista ha puntualizzato:

“In realtà, Allen non mi ha ispirato molto, mentre Fellini è stato un importante riferimento per me, specialmente in “Amarcord”, la sua riflessione sul legame famigliare, sulla tradizione… Se ne sente l’eco nel mio film.”

Se lo spunto per il suo primo lungometraggio proviene da un’attenta osservazione delle dinamiche sociali del suo paese, la vena autobiografica è rappresentata soprattutto nell’esperienza di Liu Shidong, l’interprete principale, che non a caso dà il nome al personaggio. L’attore ha spiegato così il suo rapporto con il protagonista:

“C’è qualcosa della mia vita attuale, il suo background famigliare è anche un po’ il mio: anch’io ho perso mio padre quando ero adolescente. Per fortuna avevo ancora in mente il senso della vita, la forza di andare avanti. Ciò mi ha legato molto a questo ruolo.”

Una simbiosi che si allarga in generale a tutta la produzione del film, che ha visto una grande collaborazione fra cast e regia, sottolineata da Yue fin da subito. “The Scope of Separation” è un tributo sentito alle istanze generazionali: una preziosa istantanea dei sentimenti e dei sistemi di valori attuali, per l’unico film cinese selezionato dalla giuria della 35a edizione del Torino Film Festival.