La retrospettiva, curata da Fracesco Zanot, è un’antologia di immagini appartenenti al passato, recuperate nei mercatini e riutilizzate come chiave di lettura per la definizione attuale di fotografia, della quale l’artista analizza in particolar modo l’uso smodato. Un’indagine sull’apparenza ingannevole e multiforme della natura umana (e quindi della sua rappresentazione), tra ready-made, selfie di piedi, montagne di pellicola e dita dentro l’inquadratura…
–
_di Miriam Corona
The Many Lives of Erik Kessels è il frutto dell’intera carriera dell’artista olandese classe 1966, in mostra a Camera – Centro Italiano per la Fotografia fino al 30/7. Essa ripercorre gli esperimenti dell’artista incentrati sull’immagine e i suoi archivi, mettendo in discussione il concetto vernacolare della fotografia e dei mezzi attraverso i quali si realizza. Kessels è una figura artistica a trecentosessanta gradi che nella sua carriera ha esplorato gli aspetti meno convenzionali della cultura dell’immagine sfidando i limiti della categorizzazione. Pubblicitario, editore, collezionista, gallerista (e molto altro), attinge alle fonti più disparate per realizzare i suoi lavori, incentrati per la maggior parte sulle fotografie ritrovate, redimendole dagli anfratti polverosi di cantine o soffitte per poi operare come un moderno Duchamp.
Con un evidente critica al consumismo odierno della fotografia, sia sul piano amatoriale sia su quello professionale, egli attribuisce a ciò che normalmente viene considerato un rifiuto (come gli errori fotografici) lo status di ready-made: la finalità principale non è più quella di immagini destinate alla fruizione familiare dei contesti domestici, bensì la riflessione su ciò che vale la pena osservare e il valore che gli vogliamo attribuire.
Accedendo alla prima sala della mostra, non possiamo non vedere e camminare sopra il collage a grandezza naturale del progetto My Feet, letteralmente un “selfie di massa” che raccoglie tutte le foto che la gente scatta ai piedi nei momenti di noia, trovate digitando nei principali motori di ricerca la dicitura “i miei piedi” in varie lingue; piedi eleganti, nudi, ricoperti di vesciche e nella sabbia ci invitano a valutare il significato di autoscatto inteso non esclusivamente come autoritratto riconoscibile della nostra persona e l’inevitabilità di catturare fotograficamente l’opera includendo i nostri stessi piedi di visitatori, creando un sovrapporsi di immagini che ci portano a pensare all’eventuale saturazione dei cosiddetti selfie dell’era digitale.
Presente nella stessa sala una delle serie del progetto più ampio e emblematico di Kessels, In Almost Every Picture, in questo caso la #8; le fotografie sono state scattate da Hironori Akutagawa nel 1999, padrone di Oolong, un coniglio dalla testa piatta sulla quale si potevano appoggiare vari oggetti. Le foto rappresentano l’animale con vari oggetti in equilibrio sul suo capo, tra cui cibo (peperoni, pomodori, pancakes e quant’altro), rotoli di carta igienica, teiere, CD e altri oggetti domestici. Le fotografie, riprese quasi sempre dallo stesso punto di vista, ancora oggi sono testimonianza della simpatica amicizia tra l’uomo e il coniglio.
Nella sala successiva salta all’occhio la gigantografia posta sul pavimento di uno scatto appartenente a In almost every picture #11, che ha come protagonisti il fotografo Fred e sua moglie Valerie, il soggetto di tutte le fotografie: essa è sempre vestita di tutto punto e immersa nell’acqua, fino alle gambe o addirittura completamente, che sia in una piscina, un fiume o un lago. La coppia coglie ogni occasione possibile per bagnarsi o avere a che fare con l’acqua in un gioco avventuroso e sensuale.
Una raccolta di auto-scatti realizzati da una fotocamera con sensore di movimento raffigura animali selvatici colti di sorpresa in pose spontanee, soprattutto cervi, i cui corpi si stagliano sullo sfondo boschivo notturno: In almost every picture #3 getta l’attenzione sulla curiosità dell’uomo per un mondo dimenticato, quello delle foreste e dei suoi abitanti, esseri candidi, ingenui e a tratti inquietanti.
«Attraverso una sorta di indagine antropologica, Kessels ci porta oltre l’apparenza ingannevole, utilizzando la fotografia come mezzo per portarci nelle viscere della fallibilità umana»
La serie #10 eleva nettamente lo standard del concetto di fotografia ritrovata: essa è infatti una collezione di circa 250 fotografie scattate nell’arco di 35 anni da Jean-Paul Cuerrier presso il ristorante Au Lutin Qui Buffe di Montreal, dove i clienti del ristorante si fanno ritrarre scherzosamente insieme a un maialino mentre gli danno da bere con una bottiglia, accarezzandolo, giocandoci o fingendo di mangiarlo. Siamo tra il 1938 e il 1973: la questione animalista (o igienica) non sembra toccare gli avventori del ristorante, ritratti in spontanei scatti dai toni rosacei, mentre oggi queste foto non fanno altro che rimarcare i diritti degli animali e la relazione tra uomo e cibo.
Sulla parete opposta non possono non attirare l’attenzione un gruppo di polaroid (la serie #14) ai cui soggetti, verosimilmente dei bagnanti in spiaggia, è stata ritagliata l’area del volto. Quello che può essere un intrigante mistero che ricorda l’Amélie del film di Jeunet intenta a identificare l’uomo ricorrente nelle fototessere strappate, ha anche in questo caso una soluzione piuttosto ovvia: se nel film la figura misteriosa era il tecnico della cabina fotografica che dopo aver testato la sua efficienza si sbarazzava delle foto, nella serie di Kessels è un fotografo alla ricerca di soldi facili e veloci, che ritaglia la parte centrale per poi applicarla a una tessera e rivenderla ai vacanzieri.
Ultima raccolta presente nella stanza, una delle poche che Kessels stesso realizza, è Tree Paintings, in cui i tronchi degli alberi sono le tele che i boscaioli marchiano con lettere, croci o numeri in vista del loro abbattimento; ogni segno è esclusivo ed individuale, frutto dell’immaginazione di questi artisti improvvisati che appongono una data di scadenza più unica che rara alle loro opere.
Muovendosi nella stanza successiva la serie #9, probabilmente la più famosa di Kessels, mostra i tentativi di una famiglia di ritrarre il proprio cane nero, sempre in contesti domestici, dove la luce non volge a favore della vecchia Polaroid con cui scattano le istantanee. Il risultato complessivo sono vani tentativi che si concludono sempre con una macchia nera, a volte quasi irriconoscibile, che riposa nella sua cuccia, guarda fuori dalla finestra, sta in braccio ai suoi padroni, gioca nel giardino di casa. Dopo anni di frustrazione e numerosissimi sforzi, finalmente i padroni riescono a scattare una foto in cui si identifica chiaramente il loro animale da compagnia, su uno sfondo prevalentemente bruciato dalla sovraesposizione.
Dopo averci strappato un sorriso, l’esposizione prosegue con In Almost Every Picture #4, sicuramente una delle serie più malinconiche. Ripercorre la storia di due sorelle gemelle, sebbene non identiche, che sono solite vestirsi e acconciarsi allo stesso modo; questo rito viene scoperto dai fotografi in questione che cominciano a ritrarle mentre camminano fianco a fianco per le strade di Barcellona. La Seconda Guerra Mondiale incombe e la tragedia invade le fotografie, nelle quali a un certo punto vediamo solo più una delle due sorelle, che quasi istintivamente lascia un posto vuoto accanto a lei destinato alla gemella scomparsa.
Presente un’altra sostanziosa raccolta di ritratti in cui i protagonisti sono i volti tumefatti di alcuni bambini. La prima cosa che verrebbe in mente vedendo le fronti sanguinanti e gli occhi viola sarebbe una storia di abusi domestici, mentre come al solito la spiegazione è un’altra: quei bambini infatti sono i figli di Kessels, ritratti da lui in persona dopo cadute accidentali o incidenti, con lo scopo di renderli in qualche modo fieri e coraggiosi delle loro ferite. Questa serie, intitolata My Family, ha dietro anche una storia di censura: ogni editore a cui è stata proposta ha rifiutato di prendere in considerazione la loro pubblicazione. Questo fa riflettere su come la nostra mente sia predisposta a catalogare il messaggio di una foto senza guardare oltre: il volto sanguinante di un bambino è colpa di un genitore violento come un bel paesaggio è sinonimo di quiete o romanticismo. Ma la realtà è molto più complessa e nelle sue sfaccettature, troppe per essere catturate in un semplice scatto, sono presenti momenti dolorosi che spesso dimentichiamo (o vogliamo dimenticare).
«Oltre a ricordarci la naturalezza dei nostri errori,
Kessels ci apre una finestra sulla bellezza della conservazione dei ricordi»
Al centro della stanza degli espositori girevoli (come quelli delle cartoline) espongono un’ampia varietà di foto vernacolari appartenenti alla serie All Yours, riproposte nello stesso modo in cui sono state trovate in primo luogo dall’artista nei mercatini, ma in una realtà museale non convenzionale.
Fa invece parte di un progetto collettivo tra Erik Kessels, Marlene Dumas e Ryuichi Sakamoto la video installazione intitolata My Sister, un home movie che ritrae fratello e sorella giocare a ping pong in giardino. Dopo pochi minuti, in cui i movimenti glitchati dei protagonisti sono sincronizzati con la musica ciclica di Sakamoto, i sottotitoli ci informano che i bambini del video sono Kessels e la sorella, morta nel 1977 a causa di un incidente stradale, poco dopo che queste scene sono state girate, sottolineando ancora una volta come le cose che vediamo sono solo l’apparenza di vicende molto più elaborate che non possiamo conoscere attraverso l’esclusiva fruizione visiva.
L’ambiente successivo è un inno alla bellezza degli album fotografici, oramai parte di un’epoca conclusa. Lo scontro generazionale è evidente: nell’era digitale gli eventi o i momenti rilevanti della vita di una persona non vengono più collezionati e riposti sotto forma di fotografia negli album fisici, portando all’attenzione la cura di coloro che hanno creato questi preziosi contenitori dei propri ricordi. Che siano ritratti in giovinezza, di coppie, amici o fratelli, scatti più smaliziati e vanitosi, essi ci proiettano negli aspetti più intimi di persone provenienti da ogni parte del mondo e nelle loro esperienze.
Una montagna di foto sommerge letteralmente la penultima sala della mostra. E’ l’installazione 24 hrs of photos, ovvero tutte le foto caricate nell’arco di 24 ore sui principali social network stampate in formato 10×15 e riversate in una pila che sfiora il soffitto della stanza. L’impatto è notevole: se pochi minuti prima avevamo apprezzato i rari e misurati ricordi che le generazioni passate testimoniavano con parsimonia, ora siamo sopraffatti dall’inevitabilità di come i momenti che cerchiamo di fermare nel tempo si perdano in mezzo a migliaia di memorie simili. Consapevolmente o no, oggi desideriamo confermare la nostra presenza attraverso la condivisione di immagini in un flusso monotono e quasi ripetitivo, qui tradotto in senso fisico per farci rendere conto della loro presenza, tanto ingombrante quanto dimenticabile.
Valicata la montagna di fotografie, arriviamo nell’ultima stanza in cui veniamo a conoscenza di due storie di grande affetto: In Almost Every Picture #5 riguarda una famiglia che ritrae il proprio dalmata in svariate occasioni, sperimentando per tutto l’arco della sua vita pose e situazioni in cui l’animale risulta sempre eccezionalmente fotogenico per il suo manto bianco e nero in un mondo a colori, con un eleganza pari a quella di una modella d’alta moda; l’altra, la #1, è una raccolta di immagini scattate da un marito alla moglie tra il 1956 e il 1968, rimarcabili per l’estrema cura nelle pose e nelle location utilizzate. Sono scatti amatoriali dal sapore professionale, che rendono ognuno di essi un frammento di unicità nella vita di tutti i giorni. La protagonista della serie #7 è invece Ria van Dijk, una donna olandese immortalata per ogni anno della sua vita, da quando aveva 16 anni fino ai giorni nostri, nel momento in cui, con un fucile nel poligono di un parco giochi, colpisce il bersaglio e innesca il meccanismo a scatto dell’otturatore. La raccolta di foto è testimonianza sia della vita di Ria, sia dello sviluppo della fotografia nell’arco dei decenni, passando dal bianco e nero ai colori.
Percorrendo il corridoio esterno che riporta alla prima stanza, approfondiamo ulteriormente il concetto di fotografia sbagliata grazie a Wonder, che segna la fine dell’epoca analogica e del momento in cui, al ritiro delle stampe, ci si rendeva conto dei fatali errori, spesso casuali, come un rullino inceppato, doppie esposizioni non volute o banali messe a fuoco scorrette; In almost every picture #13 si concentra sull’errore tanto accidentale quanto incorreggibile (persino nell’attuale era digitale) delle dita di fronte all’obiettivo, che come grandi macchie di luce oscurano i nostri soggetti. Le gigantografie di Strangers in My Photoalbum invece rende protagonisti coloro che non devono esserlo, ovvero le figure che compaiono negli sfondi delle foto delle nostre vacanze, gite e pomeriggi al parco; essi vengono isolati dai nostri album di fotografie, nei quali si intromettono senza che nessuna delle due parti lo desideri. Le loro vite così si incrociano inevitabilmente con le nostre, senza esserci rivelate in nessun modo.
Attraverso una sorta di indagine antropologica, Kessels ci porta oltre l’apparenza ingannevole, utilizzando la fotografia come mezzo per portarci nelle viscere della fallibilità umana, celebrandola e rendendola degna di stare in un museo. Oltre a ricordarci la naturalezza dei nostri errori, ci apre una finestra sulla bellezza della conservazione dei ricordi, cimeli ancorati all’eternità, e sulle esperienze del passato che si scontrano con le nostre e si amalgamano in quella che è l’inesauribilità della vita.