La terra inquieta: smottamenti umani alla Triennale di Milano

Si può disegnare la vera immagine di qualcosa? E’ uno degli interrogativi alla base della ricerca dell’artista belga Francis Alÿs ma anche la sfida della collettiva “La Terra Inquieta” a cura di Massimiliano Gioni. Proviamo a riarrotolare la bobina del “romanzo occidentale”…

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_Martina Lolli

Fino al 20 agosto alla Triennale di Milano si potrà visitare “La Terra Inquieta”, collettiva a firma di Massimiliano Gioni che nasce dalla collaborazione con la Fondazione Nicola Trussardi. Ispirata all’omonima poesia di Édouard Glissant, la mostra parla di confini attraversabili e che attraversano, di diritto all’immagine, di smottamenti umani e catastrofici ma anche di utopici modelli di coesistenza fra culture diverse, lasciando all’immagine la sua dignità etica di essere “a se stessa migrante”.

Nel suo libro lo storico T. J. Demos delinea l’“immagine migrante” come una rappresentazione che trova la sua essenza nella lettura plurima e nella  riflessione trasversale, portatrice di una verità che si sfaccetta in narrazioni molteplici e flessibili, poiché altrettanto molteplici sono le voci da cui può scaturire e innumerevoli le traiettorie reali e virtuali che può calcare. I 65 artisti riuniti da Gioni espongono opere/testimonianze che propongono un’alternativa alle immagini massmediali sul fenomeno delle migrazioni: siamo abituati ad avvertire queste ultime come una minaccia, senza ricordarci di come il fenomeno abbia riguardato le nostre famiglie e torni prepotentemente a riguardarci in prima persona, oggi.

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John Akomfrah
Vertigo Sea, 2015
Three channel HD colour video installation, 7.1 sound
48 minutes 30 seconds

La migrazione è un prodotto della globalizzazione,  ma i protagonisti coinvolti non sono tutti uguali: rifugiati, richiedenti asilo, apolidi, sono questi i protagonisti de “La Terra Inquieta”, nonché i soggetti storici della nostra contemporaneità. Artisti con doppio passaporto, molti dei quali con esperienze personali del trauma della fuga e di un viaggio costato spesso vite umane, ai cui stenti si aggiunge il peso di un’informazione che tende a uniformarli come una massa ostile, senza tener conto delle differenze e delle peculiarità che ciascuno porta in seno. Le testimonianze che prendono corpo in questa collettiva riportano a galla le storie lavate dalle onde dell’oceano dell’informazione globalizzata, scevre di sentimentalismi; scardinano i canoni delle breaking news con un’espressione intima e partecipata, mai sensazionalistica.

“La Terra Inquieta” raccoglie l’impegno della dichiarazione artistica viva e urgente che, assumendo in parte i codici giornalistici, assume un ampio respiro, per rinegoziare i confini politici, economici, territoriali e quindi umani.

Nella serie Don’t Cross the Bridge Before You Get to the River di Francis Alÿs si gioca con i binomi che solitamente caratterizzano le due sponde, quella di partenza e quella di approdo: fine/inizio, andata/ritorno, immigrazione/emigrazione, conosciuto/sconosciuto,  scritte apposte sulle terre senza nome e dai contorni sfumati dei suoi piccoli collage su tela. I confini rotolano nella mappa di Mona Hatoum – Map (clear), 2015 – che affida la rappresentazione dell’intero mondo a piccole biglie trasparenti appoggiate sul pavimento a indicare l’intrinseco dinamismo di ogni terra. L’opera di Bouchra Khalili, The mapping journey project (2008-2011) è un’installazione di schermi su cui diverse persone illustrano le vicissitudini del loro viaggio verso l’Unione Europea: a essere inquadrate sono delle cartine dove ciascuno traccia il proprio percorso disegnando una costellazione che lega punti geograficamente molto distanti. A delineare lo skyline – i margini eterei di una città – è Rayyane Tabet che ne costruisce una con calchi in cemento di un set di giocattoli di legno; con Architecture Lesson (2013) è la modularità della città globale e potenzialmente infinita a essere riprodotta nel gioco combinatorio e beffardo della gentrificazione culturale e urbana.

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Mona Hatoum, Map (clear), 2015 Courtesy Mona Hatoum and Galerie Chantal Crousel, Paris. ph Florian Kleinefenn

In mostra non si riabitano solo gli spazi, ma si immagina anche la crisi, ovvero si tenta di darle una forma e una consistenza liriche; il video di Mounira Al Solh (Now eat my script, 2014) si interroga sulla necessità di una testimonianza catartica e sul suo portato emotivo che ne inquina l’oggettività: “Si può realmente registrare un trauma? Se tu scrivi su un’esperienza traumatica, ne starai scrivendo a posteriori”.

E’ la parzialità di una visione filtrata dagli occhi del testimone a rendere le informazioni che ci pervengono reali e complete.

Parliamo di una relatività, ma che ha in sé un arricchimento e non conclusioni univoche. “Immagini malgrado tutto” direbbe Didi-Huberman, l’immagine inquieta e inquietante che sottolinea il diritto di ciascuno di disegnare la propria storia, per quanto essa sia dolorosa e impensabile. Forse è questa l’etica dell’immagine: la sua facoltà di essere testimonianza critica e comunicativa allo stesso tempo, accessibile a tutti, portatrice di libertà espressiva e informativa, per restituire la complessità del mondo in cui viviamo. Immagine della crisi, ma della crisi in quanto scelta.

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Steve McQueen, Static, 2009 courtesy Steve McQueen, Marian Goodman gallery and Thomas Dane gallery

Immagine di copertina: Bouchra Khalili, The mapping journey project, 2008 – 2011 – courtesy B. Khalili and Galerie Polaris – ph Benoit Pailley