Essere un dj in Iran

In bilico tra documentario e fiction, “Raving Iran” – presentato al Cinema Massimo di Torino nell’orbita di Seeyousound Festival – racconta le difficoltà di due musicisti underground che devono fare i conti con l’ingerenza del governo e della teocrazia di Teheran. Ma il loro caso non è certo l’unico: tra pregiudizi e paradossi, censura e burocrazia, cosa vuol dire fare elettronica in Iran, oggi? 

_di Lorenzo Giannetti
Anoosh e Arash sono due giovani dj di Teheran che fanno “musica di Satana”. No, non fanno black metal come gli Al-Namrood, forse l’unica band anti-islamica dell’Arabia Saudita. A dirla tutta, non fanno nemmeno techno, come si legge in buona parte dei comunicati stampa di “Raving Iran”. Fanno house, contaminata quanto basta con spezie mediorientali. Ma queste distinzioni non fanno molta differenza per gli uffici del governo iraniano, che bollano praticamente tutto ciò che non è musica tradizionale come sinfonia del demonio.

La metafora “satanista” può far sorridere eppure non si tratta di un’iperbole, bensì della posizione ufficiale delle alte sfere governative nonché di una immagine ormai fortemente radicata nell’immaginario collettivo della nazione.

A tal proposito, recuperate le immagini del murales conosciuto come “Il Grande Satana”. Si tratta di un graffito che raffigura la Statua della Libertà con le sembianze della morte, sullo sfondo di una bandiera americana orfana delle sue stelle. La macabra effige sortisce un effetto ancora più significativo se si pensa che è posta proprio a ridosso dell’area dove un tempo sorgeva l’ambasciata statunitense a Teheran. Parliamo al passato perché – come è noto – l’avamposto a stelle e strisce è stato destituito in seguito alla rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeini e alla cosiddetta “crisi degli ostaggi” (vicenda recentemente ricostruita, almeno in parte, dal film candidato agli Oscar Argo di e con Ben Affleck). Ecco, il Grande Satana è l’Occidente tutto, visto come sibillino diavolo tentatore.

 
“Il Grande Satana”, l’Occidente
Che non fossimo di fronte ad una caricaturale forzatura della situazione era evidente già elaborando le parole del delegato dell’ambasciata iraniana a Torino, presente in sala e ospite di Seeyousound.
“Tra pochi settimane in Iran ci saranno delle nuove elezioni. La situazione è quanto mai delicata e complessa. In Iran ogni candidatura deve essere filtrata da un consiglio speciale”. Il nome dell’organo in questione evoca scenari fantasy: “I guardiani della Rivoluzione”. Emerge sin dall’inizio l’immagine di una nazione difficile da inquadrare, in equilibrio precario fra tensioni opposte.
In ogni caso, i metodi utilizzati per controllare ogni aspetto della cultura della Nazione, stando alle immagini di “Raving Iran”, sfiorano la tabella di marcia di una Inquisizione pasticciata e posticcia.
Ed è con queste premesse che Anoosh e Arash provano a ritagliarsi il proprio spazio nella scena musicale cittadina.

«One passion against the nation»

Chiariamo in primis che il film della regista tedesca Susanne Regina Meures non è un documentario sulla scena elettronica iraniana o araba, sebbene parta dalla suggestione di un ipotetico “Burning Man Festival nel deserto persiano“. Torna alla mente quel vistoso equivoco avvenuto qualche mese fa in relazione ad un altro film a sfondo musicale, quando il magnifico Eden di Mia Hansen-Løve veniva spacciato come un specie di documentario sui Daft Punk, mentre tratteggiava fondamentalmente una dolorosa parabola esistenziale nella quale i due robot d’Oltralpe avevano più che altro un ruolo “simbolico”.

“Raving Iran” è però sicuramente un “documento“, un lasciapassare che due ragazzi vorrebbero esibire agli aeroporti di tutto il mondo. Invece, riuscire ad ottenere il visto per il Lethargy Festival di Zurigo (e ottenere il proprio Eden) sarà un vera e propria impresa per i Blade&Beard.
Ecco, già il nome d’arte del duo rischia di creare scompiglio, irridendo in qualche modo il simbolo tipicamente mediorientale della barba. Ma è solo l’inizio di una trafila che vedrà la coppia di giovani dj elaborare rocambolesche (quanto rischiose) azioni di spionaggio per organizzare “rave” del deserto (leggasi semplici concerti di musica elettronica e non chissà quali maratone di cassa dritta), per registrare la propria demo e stampare la scabrosa copertina del disco (pressoché proibiti i caratteri/font occidentali, tranne che per la dicitura “Made in Iran”).
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“Chill” in Teheran
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Il film utilizza la grammatica base del reportage riuscendo tutto sommato a bilanciare cronaca e velleità autoriali, pur perdendosi un po’ quando prova a ricamare troppo su elementi più intimi (vedi ad esempio la scena “romanzata” in cui uno dei dj tronca la propria relazione con la fidanzata).

Va detto che si tratta dell’esordio – per la precisione addirittura del progetto di Diploma – della giovane Meures, da premiare in ogni caso per intraprendenza e determinazione: girato con una Canon5D e in parte con un semplice iPhone (per evitare domande in contesti problematici), “Raving Iran” è stato finanziato in larga misura dal ministero Svizzero, in particolare dalla città di Zurigo, meta del viaggio di lavoro che cambierà di fatto la vita dei protagonisti di questa storia.

Fa impressione registrare dichiarazioni dal retrogusto amaro come “In questo Paese tutto è underground”, perché è praticamente impossibile che la “musica di Satana” oltrepassi il filo spinato della censura e finisca in radio o anche solo in rotation nei locali. E’ invece molto probabile che chiunque si ritrovi immischiato in situazioni sconvenienti come un party casalingo o la comparsa in un videoclip occidentale (vedi la storia assurda dei ragazzi arrestati perché ballavano Happy di Pharrell), finisca in prigione per qualche giorno. E non è escluso che possa assaggiare anche la frusta.
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Nulla sembra sfuggire ai gendarmi della Rivoluzione, tant’è che lo spettro delle accuse di favoreggiamento è davvero ingombrante nelle teste delle persone a cui Anoosh e Arash si rivolgono per aiuti di diversa natura. Ma è proprio in questo frangente che emergono le più evidenti contraddizioni di un popolo che sembra tutto fuorché pedissequamente “fedele alla linea di partito”, anzi…
Sono in molti a riconoscere anacronismi e costrizioni, solo che hanno imparato a dissimulare, celando una consapevolezza cinica e concreta. Per usare le parole di una donna intervistata: “Sembra che questo governo voglia che gli si menta”. E così molti attuano escamotage quasi carbonari pur di non premere i nervi scoperti del potere, pur di mantenere lo status quo.
Persino il confronto genitoriale-generazionale (ostacolo d’obbligo in molte situazioni di questo genere) non ha particolare rilevanza nella parabola di Anoosh e Arash, spinti dalle rispettive famiglie a “vivere le proprie vite lontano dall’Iran”.
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Prima dell’exploit di “Raving Iran”, a puntare i riflettori sullo show quasi “comico” che avviene all’ombra dei Guardiani della Rivoluzione era stato un altro musicista elettronico iraniano, il producer Ash Koosha. Acclamato come uno dei più visionari talenti da tenere d’occhio nei prossimi anni, Koosha non è sicuramente mai stato perso di vista dalle forze dell’ordine iraniane, che lo hanno arrestato per via dei live “clandestini” che organizzava in un giardino per matrimoni nella periferia di Teheran.
Il governo non deve averli perdonato nemmeno la partecipazione al film militante “No One Knows About The Persian Cats“, panoramica critica in salsa rock’n’roll sulla situazione surreale della casbah iraniana.
Approdato sulla label di culto Ninja Tune (eccellenza internazionale in materia di elettronica “avant”) Koosha è stato contemporaneamente vittima del muslim ban di Trump: organizzare un tour in Europa e negli States rischia di essere piuttosto scoraggiante. Koosha resta una delle voce più determinate nella lotta a semplificazioni e pregiudizi, aprendo un ulteriore spiraglio nel dibattito: il problema non è solo essere un artista in Iran ma anche essere un artista iraniano nel mondo.
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E quali confini ha, oggi, il mondo di Anoosh e Arash? Attualmente la vita dei Blade&Beard lontano dall’Iran è quella dei rifugiati, letteralmente. Sono riusciti ad ottenere un visto permanente e vivono in una zona montana della Svizzera, tra le pecore, e si sentono un po’ come in certe zone rurali dell’Iran, probabilmente. Tuttavia hanno un tour con un tot di date in Europa per tutto il mese di aprile e la loro storia sta facendo il giro del mondo.

Non essendoci lasciati sfuggire la maglia della Juventus sfoggiata da uno dei due durante le riprese, il nostro augurio è di vederli (liberi di) esibirsi anche a Torino…
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Anoosh e Arash
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Quale futuro per l’Iran, invece? È difficile – se non impossibile – abbozzare in queste poche battute un’analisi esaustiva delle dinamiche più recondite della comunità iraniana.
Quel che è certo è che in un Paese con una tale, asfissiante, “supervisione” dall’alto è bene riservare un plauso doppio agli esempi di arte ispirata e indipendente. E il paradosso è che ce ne sono, eccome!Spostandoci dalla dancefloor al grande schermo, si registra un momento di grande ispirazione per il cinema Made in Iran (celebrato anche dalla roccaforte d’essai del Cinema Massimo, con una rassegna ad hoc); riflettori puntati anche sul proscenio teatrale, dal momento che è stato recentemente dato alle stampe il volume “The first book of iranian theater“, che si fa promotore di un sistema-teatro addirittura aperto a privatizzazioni (che bypassi dunque la morsa statale).

La storia di Anoosh e Arash, allora, è la storia di due ragazzi chini sulla consolle, ma potrebbe essere quella di due registi dietro alla macchina da presa o di due attori in cerca di un palcoscenico. Tutti accomunati dal tentativo di inseguire l’aspirazione più naturale del mondo, come suggerisce la scritta sulla cover del cellulare di uno dei nostri due dj: “Do what you love.

Qui trovi il programma completo di Seeyousound e del Cinema Massimo.
Prossimo appuntamento per il 9 maggio con London Town.