[REPORT] Alberto Ferrari “gioca” tra le architetture espressioniste di Robert Wiene

Prosegue il ciclo di sonorizzazioni dal vivo organizzate dal Museo Nazionale del Cinema e Seeyousound Festival. Questa volta è il turno di Alberto Ferrari dei Verdena, a cui tocca confrontarsi con una perla nascosta dell’espressionismo tedesco: “Genuine” di Robert Wiene. Il report dell’esibizione al Cinema Massimo di Torino.

_di Iacopo Bertolini

“Come siete silenziosi!” commenta sornione Alberto Ferrari un attimo prima che i fotogrammi inizino a scorrere sullo schermo della sala uno del Cinema Massimo. Un cortocircuito linguistico probabilmente inconsapevole, ma di certo appropriato in un evento con coinvolge musica dal vivo e silent film. Quella tra il Museo Nazionale del Cinema e Seeyousound Festival, in questa occasione affiancati anche dal Festival Transiti di Trento, è una sinergia ormai consolidata che ad ogni appuntamento coinvolge musicisti esterni al mondo del cinema nella sonorizzazione di film muti, facendo così confliggere personalità diverse in un progetto se vogliamo non troppo rigoroso dal punto di vista storico e filologico, ma che fino ad ora è riuscito a regalare non poche sorprese.

Se però fino ad adesso erano state proposte pellicole tutto sommato note e canonizzate dalla critica, questa volta il film coinvolto è una vera rarità: Genuine di Robert Wiene è una sorta di gemello segreto del ben più celebre Das Cabinet des Dr. Caligari, girato appena un anno prima. Nonostante vengano riproposti gli stessi topoi narrativi (follia, erotismo morboso, vampirismo e possessione) e un décor ormai compiutamente espressionista, il film è stato praticamente ignorato alla sua uscita e dimenticato fino al 1996, anno in cui viene ricostruito dal Museo del Cinema di Monaco a partire dalle uniche due copie sopravvissute. Ricostruzione in ogni caso parziale, ma sufficiente per poter render conto dei notevoli progressi che Wiene era riuscito a compiere sul piano visivo rispetto al Caligari, superato da Genuine nella mobilità della macchina e in una concezione dello spazio più aperta alla tridimensionalità.

E’ prima di tutto su questa frammentarietà che si innesta il lavoro di Ferrari, trovando terreno fertile e sorprendentemente adatto per la sua attitudine decisamente “anarchica” alla composizione.

La bizzarria degli eventi su schermo e i labili nessi narrativi che li collegano, uniti alla parzialità della pellicola, non consentono infatti la costruzione di architetture definite e di ampio respiro. Ferrari, munito per l’occasione di chitarra elettrica, microfono e tastiera, preferisce adottare quindi una tecnica mista, che mescola il commento di eventi visivi singoli (gesti, espressioni, movimenti di macchina) con lietmotiv accostati in modo piuttosto libero a situazioni drammatiche ricorrenti.

Un “tematismo imperfetto” – termine da prendere con le pinze – che a dispetto del suo scarso rigore, giova tanto all’esperienza visiva quanto alla performance in sé. Il musicista bergamasco riesce infatti ad esprimere appieno la sua debordante personalità scenica che tutti conosciamo senza interferire più del necessario con il flusso delle immagini, ricordandoci però costantemente che è un’esibizione dal vivo quella a cui stiamo assistendo. La perfetta sincronia tra audio e video viene messa da parte (tutto il contrario dell’algido sinfonismo che spaccava il secondo adottato dai Giardini di Mirò per Rapsodia Satanica in un contesto simile) in favore di variazioni sul tema improvvise, distribuite in una costruzione “orizzontale” di episodi musicali mai eccessivamente stratificati.

Quello che manca in complessità è infatti compensato in immediatezza e definizione acustica. Come sempre infatti Alberto Ferrari da prova di essere un maestro della resa sonora, regalando alla chitarra distorsioni grasse e compatte che ricordano per certi versi quelle dei primi Verdena.

«Alberto Ferrari gioca con Genuine e il suo assurdo immaginario, ribaltando toni e cliché, senza mai confondere il gioco con lo scherzo»

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La scelta più curiosa riguarda però le voci. Ogni qual volta i personaggi parlano (ricordiamo infatti che, a dispetto di quanto si possa pensare, nei film muti si parla un sacco) Ferrari segue approssimativamente il labiale, processando urla e versi incomprensibili attraverso vari tipi di effetti. Il risultato è inevitabilmente comico, ma c’è di più. Questo espediente consente al musicista di prendere distanza ironica, e quindi anche critica, dall’opera su cui sta lavorando, evitando così il rischio di uno sterile commento emotivo delle situazioni proposte. Una soluzione straniante, che si adatta al tenore visivo sopra le righe del film e fa i conti su quello che è un dato di fatto: a quasi 100 anni dalla loro uscita, i film del muto tendono a suscitare una certa ilarità la maggior parte del pubblico odierno.

Evoluzioni linguistiche e codificazioni progressive nel campo della recitazione hanno distanziato ormai in modo quasi irreparabile dalla nostra percezione volti pesantemente truccati e corpi dalle movenze esagerate. Alberto Ferrari gioca con Genuine e il suo assurdo immaginario, ribaltando toni e cliché, senza mai confondere il gioco con lo scherzo. Un’operazione a tratti aleatoria, ma senza dubbio coerente, che ci permette di riscoprire un film ignorato per troppo tempo e riesce nel mettere in contatto, anche grazie ad una buona dose di casualità, due personalità artistiche il cui accostamento sarebbe parso impensabile.