Greco, altro che lingua morta: “La lingua geniale” di Andrea Marcolongo

Al Circolo dei Lettori la grecista Andrea Marcolongo presenta la sua prima fatica letteraria, La lingua geniale: 9 ragioni per amare il greco, edito da Laterza. Un invito alla ricchezza delle culture classiche e una riflessione sul loro valore, oggi. 

_di Silvia Ferrannini
 
«Il classico è ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona» scriveva Italo Calvino, nel non troppo lontano 1981. Che facciano capolino dalle pieghe della memoria o che diventi qualcosa di sempre nuovo ad ogni rilettura, un classico è tale perché il suo discorso, umano e culturale insieme, non si esaurisce mai, qualsiasi siano i tempi e gli spazi in cui risuona. Questo naturalmente non significa che devi aver letto tutte le orazioni di Cicerone o i dialoghi di Platone: se senti che non ti appartengono, che sono segregati in una lista di “libri che prima o poi leggerò perché devo”, allora non funziona: si deve sempre leggere per amore. Il classico non si estingue perché si reincarna ogni giorno intorno e dentro di noi e ci offre, nell’universalità dei suoi segni e delle sue immagini, la possibilità stabilire un rapporto unico con lui. È tuo e nostro insieme.
 
Forse è anche per questi motivi che Andrea Marcolongo ha dedicato al greco antico questa lunga lettera d’amore che è La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco, edito da Laterza e presentata giovedì 23 marzo al Circolo dei Lettori. Grecista laureata all’Università degli Studi di Milano, specializzata in storytelling alla scuola Holden e consulente di comunicazione per politici e aziende (ed ex ghostwriter di Renzi, aspetto del suo vissuto professionale che l’uditorio non ha mancato di sottolineare in certi momenti dell’incontro), l’autrice sta presentando e leggendo la sua creatura letteraria in molte scuole d’Italia, e la sorpresa più inattesa sta nell’ottima ricezione che registra tra i ragazzi («alcuni di loro si dicono fieri di studiare il greco» afferma con sorriso luminosissimo di fronte al pubblico del Circolo): non tanto dunque dei nativi digitali, più abili nell’usare lo smartphone che le virgole, quanto menti e cuori molto giovani e poco esperti, la cui curiositas dev’essere riaccesa e alimentata ininterrottamente. I lettori della Marcolongo paiono sottilmente ammaliati dall’unicità di questo idioma. Se la parola è senso, e la lingua riflesso delle nostre percezioni, la particolarissima virtù del greco antico risiede proprio nel saper nominare senza trascurare le sfumature, conducendoci così dritti all’essenza ultima delle cose. Il mondo si fa molto più grande e dicibile: una sofisticatissima sinfonia di parole.

Così scriveva Virginia Woolf: «E’ al greco che torniamo quando siamo stanchi della vaghezza, della confusione; e della nostra epoca»

 
Ecco dunque perché l’eccentricità di questa lingua diventa spunto esistenziale: ad esempio “quel modo chiamato desiderio” che è l’ottativo è misura specifica dello spazio tra l’auspicio (o la maledizione) e la realizzabilità; il “numero due” del duale esprime una pluralità che non è meramente algebrica («gli occhi le orecchie le mani i piedi; i fratelli gli amici gli alleati; gli amanti […] il duale esprimeva un’entità duplice, uno più uno uguale uno formato da due cose o persone legate tra loro da un’intima connessione […] è il numero del patto, dell’accordo, dell’intesa. È il numero della coppia, per natura, o del farsi coppia, per scelta»).
Interessantissima è anche la questione dell’aspetto verbale, categoria grammaticale che indica la dimensione del tempo in relazione alle dirette conseguenze che ha su di noi, dunque indipendentemente dal tempo assoluto in cui l’azione è collocata («Loro, liberi, si chiedevano sempre come; noi, prigionieri, ci chiediamo sempre quando»). E si potrebbe andare oltre elencando le particolarità del genere neutro, o l’ordinata anarchia dei casi (e non manca, per i lettori più pratici, un capitolo intitolato «Ma quindi, come si traduce?»).
 
Ciò che la Marcolongo vuole illustrare – con la spontaneità e l’efficacia dell’esperta – è che una lingua, morta o viva che sia, finisce per essere volontà e rappresentazione di coloro che la parlano: le produzioni linguistiche sono indissolubilmente intrecciate all’idea, visione e immagine del mondo presso una data comunità. Per quanto altamente complessa e contestualizzata tale struttura linguistica possa presentarsi, se si vuole accedere all’anima profonda di una visione o di una percezione questa è una delle strade più sicure. Non la più facile, sia beninteso.
 
Alla fine La lingua geniale, questo piccolo capitolo di antropologia linguistica e non di grammatica o glottologia, è alla portata di chiunque: non serve essere iscritti a Lettere, studenti delle superiori o classicisti mancati per apprezzarne il valore. È sufficiente essere partecipi.
D’altro canto l’autrice non pare nemmeno avere troppo a cuore la volontà d’inserirsi nel dibattito accademico sulla sopravvivenza e l’utilità della cultura classica (che poi, cosa vuol dire qui utile, se stiamo parlando di passione?), ma naturalmente ha una sua opinione in merito e trapela, senza prepotenza alcuna, durante il dibattito al Circolo: afferma anche lei, come tanti, che ad oggi l’insegnamento del greco e del latino delle scuole spinge l’interesse dei ragazzi ancora più lontano o, ancor peggio, convince a cambiar rotta. Dove sta dunque l’aberrazione?

«Non c’è da stupirsi se l’Università si risolve in una lunga e desolante prosecuzione del liceo: mancano i presupposti per puntare più in alto. La colpa non è degli studenti, ma di chi ci sta dietro… e davanti, seduto alla cattedra»

Al di là del confronto multiculturale (che certamente lo studio di ogni lingua favorisce), del distacco lucido e quindi scevro di preconcetti con cui possiamo accostarci a una cultura lontana, (semplicemente perché quel contesto non esiste più, ma anche questa suona un po’ come una giustificazione), della bellezza dello studio perché “farmaco per l’animo”, al di là anche della fascinazione esotica per quell’universo archetipico ci si può convincere che le difficoltà di oggi, con ogni probabilità, non sono legate alla mancanza di passione ma alla mancanza dello stimolo della passione. Come si spiegano altrimenti tutti quei liceali attenti e conquistati dalle parole della Marcolongo, nessuno col cellulare in mano? Quanto è vero che a nessuno interessa più la filologia e il sapere classico?

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«L’abolizione del greco dai licei classici ha tanto il sapore di semplificazione, di sommarietà, di ricerca della scorciatoia. Ed eliminati questi? Si riempirebbero i vuoti con qualcos’altro di altrettanto stimolante?»

Lo svecchiamento delle scuole, il cieco culto della tecnologia, l’introduzione di modalità di apprendimento all’avanguardia sembrano l’alibi perfetto per nascondere una verità molto più semplice: tradurre le lingue antiche è difficile. Lo è come possono esserlo molte altre cose, certo: ed è talmente faticoso da ammettere ed accettare che si preferisce abbassare il livello, ridurre la sfida della conoscenza e dello studio a un mediocre “tirare avanti”: ecco che allora la proposta di eliminare la prova di traduzione dalla maturità, o l’abolizione del greco dai licei classici ha tanto il sapore di semplificazione, di sommarietà, di ricerca della scorciatoia. Ed eliminati questi? Si riempirebbero i vuoti con qualcos’altro di altrettanto stimolante? Pare proprio di no. Si continuerebbe a galleggiare su questa zattera tanto confortevole di negligenza e approssimazione. Non c’è da stupirsi se poi l’università si risolve in una lunga e desolante prosecuzione del liceo: mancano i presupposti per puntare più in alto. La colpa non è degli studenti, ma di chi ci sta dietro… e davanti, seduto alla cattedra.
 
La Marcolongo non illude nessuno: il greco è obiettivamente impegnativo, perché i testi risalgono a 2000 anni fa, e per tradurli è necessaria un’apertura prospettica e un’abilità di concentrazione e organizzazione a cui non siamo allenati, oltre che una buona padronanza della lingua e un continuo esercizio di memoria. Il suo libro si pone fondamentalmente come un invito e uno spunto di riflessione, ma anche testimonianza della passione e della fatica di qualcuno che ama quel che studia. I giovani, anche in prospettiva di una professionalizzazione, hanno bisogno di una spinta per sfidare se stessi e progredire: altrimenti si può già cominciare a preparare l’altare su cui verrà sacrificata la loro serenità e soddisfazione futura. Senza contare che sarebbe anche il primo passo verso una più complessiva decrescita della civiltà tutta.
 
Il ritorno al possesso della parola è anche possesso d’identità. Se oggi un libro come La lingua geniale scala le vette delle vendite e viene etichettato addirittura come best seller è un fatto che si potrebbe spiegare anche con una profonda nostalgia, legata forse a sua volta da un sentimento di disagio nei confronti del nostro tempo. Non casualmente scriveva così Virginia Woolf: «E’ al greco che torniamo quando siamo stanchi della vaghezza, della confusione; e della nostra epoca».