Recensione semiseria della quarta stagione di Sherlock

Vi chiedete se la quarta stagione di Sherlock sarà l’ultima? Vi domandate cosa potrebbe ancora estrarre dalla bombetta la premiata ditta Gatiss-Moffat? Quando avete letto premiata ditta avete pensato alle indimenticabili performance di Pino Insegno e Roberto Ciufoli? Allora, mentre aspettate che lo psicologo vi riceva, potreste anche leggere l’articolo.

Gert Dal Pozzo  –  Un’altra stagione di Sherlock è finita, e il vocione britannico del grande, irreprensibile Cumberbatch (non sapevo facesse anche teatro!) già mi manca. Credo che dovrei comprarmi un cane. In ogni caso, procediamo con un’analisi raffazzonata di quest’ultima (e se s’intenda solo per ordine cronologico o anche in senso assoluto, non è dato sapere) stagione di Sherlock. Ho letto, fantasticando sul nome del mio nuovo Golden-Retriever, parecchie recensioni: alcune arrabbiate, altre commosse, altre amareggiate, altre tanto brevi che -pensandoci bene- probabilmente erano solo sinossi che ho trovato su subsmovies.

Elemento comune a molte tra queste è la critica ai meccanismi di deduzione dell’allampanato investigatore londinese, rei di essere poco credibili e risultare spesso “simili a premonizioni. Lorsignori mi permetteranno di far notare che, se di difetto si tratta, è a buon diritto un difetto ereditario: le deduzioni che troviamo nei romanzi e nei racconti di Arthur Conan Doyle, infatti, non sono così diverse da quelle con cui la trasposizione contemporanea di Holmes stupisce il pettinatissimo Watson del buon Freeman (quello pallido, non quello che fa curvare i proiettili e lavora alla Wayne Enterprises). Volendo esagerare, la fedeltà e l’attenzione con cui la serie si approccia alla “scienza dell’osservazione” per come è descritta nei romanzi costituiscono, insieme alla personalità ed alla calzante fisionomia dell’attore protagonista, uno dei più evidenti punti di contatto tra l’universo Holmesiano originale e il suo remake.

A proposito dell’aspetto fisico “…il suo sguardo era acuto e penetrante; e il naso sottile aquilino conferiva alla sua espressione un’aria vigile e decisa. Il mento era prominente e squadrato, tipico dell’uomo d’azione.” Molti, leggendo la descrizione che il dottor Watson dà di Holmes in “Uno studio in rosso”, penseranno effettivamente a Cumberbatch, auspicabilmente meno esclameranno “minchia, è Robert Downey Junior!”, solo pochissimi rimarranno esterrefatti nel comprendere che Conan Doyle doveva avere in mente Paolo Bonolis.

Ma torniamo a noi. I nuovi episodi, effettivamente, qualche difettuccio ce l’hanno: per esempio si ha l’impressione che, a partire dalla terza stagione e sempre più marcatamente, la narrazione oscilli come spinta dalle mosse improvvise che i due autori impongono alla trama, nella perenne e troppo ostinata ricerca dell’effetto sorpresa che sembra ossessionarli. Ricerca che conduce a momenti di epica improbabilità, tipo quando da bambini ci si ciuccava di Moncherì al cenone di Natale e coi cuginetti si inventavano storie sul confuso modello dei film d’azione proposti dal palinsesto Mediaset: “E poi facciamo che la signora Hudson, già danzatrice esotica ed ex moglie di un narcotrafficante assassino che ha fatto condannare a morte con l’aiuto di Sherlock, prende la sua Aston Martin fighissima e guida velocissimo seminando la polizia per andare a convincere Watson che deve salvarlo!” .

Nei momenti – troppo rari, a detta di alcuni – in cui riescono ad ottenere un effimero equilibrio tra i vari, sempre più pronunciati, sbilanciamenti, Gatiss e Moffat, riescono però ad offrire lampi di ottima qualità, riscattando molte delle altre scene confuse ed anonime come il mio Bull terrier. Che, tra l’altro, dispone della non trascurabile attenuante di non esistere.

Altro punto debole della serie, sempre più evidente con il progredire delle stagioni, sono le chiarissime manie di protagonismo dell’autore ed interprete Mark Gatiss: Mycroft, a metà tra Giove Ottimo Massimo e Gigi Marzullo, è spesso l’ambigua origine-soluzione di molte tutte le trame che la serie percorre. Ora, anche il mio Shar pei senza nome converrebbe che, nel corso della narrazione, lo sceneggiatore si sia fatto prendere la mano ed abbia assegnato uno spazio un po’ esagerato al proprio personaggio. O almeno l’avrebbe fatto, se non me lo fossi inventato e avessi deciso di togliergli la museruola. Parlo dello Shar pei, ovviamente: non sono il genere di persona che si fa impietosire dai guaiti di Gatiss.

Ancora, l’assenza di un valido antagonista dopo la teatrale dipartita del Moriarty di Andrew Scott (il doppiaggio italiano affidato a Philip J. Fry gli conferisce, un po’ a cazzo, pregevoli sfumature comiche) si ripercuote sul protagonista – che non sembra aver mai davvero superato il lutto – e sui suoi autori, che è facile immaginare dimenarsi senza posa rovistando all’interno delle proprie menti, nella speranza di cavarne fuori un genio-criminale il cui spessore psicologico eguagli quello del compianto Gargamella britannico.
A dire il vero, nella sec
onda puntata dell’ultima serie – la migliore, tra quelle recenti – un buon antagonista verrebbe anche fuori. Si tratta del multimilionario maniaco Culverton Smith (interpretato da un convincente Renato Brunetta), il cui personaggio si svampa però, deludentemente, nello spazio di una puntata, per lasciare spazio al ricongiungimento tra i due “Baker street boys”. Baker street Boys: quale miglior modo per rovinare il parossismo patetico preparato in un’intera stagione che affibbiare ai due protagonisti un appellativo simile al nome della boyband americana che ispirava l’outfit dei Gemelli Diversi.

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Niente da fare, Gatiss e Moffat si esprimono al meglio quando navigano nella trama senza troppo allontanarsi dalla costa dei testi originali (se la metafora vi fa cagare, sappiate che sono d’accordo): quando non si accartoccia su se stesso in complesse e poco feconde evoluzioni narrative, il duo dimostra di sapere rileggere e rinnovare gli elementi delle storie originali con garbo e precisione, cambiando quel tanto che basta per ottenere una nuova vicenda senza dissipare il fascino e la capacità di coinvolgere che permisero ad Holmes di diventare un fenomeno mondiale. Quelle doti, per intenderci, che spinsero l’arzilla madre di Arthur Conan Doyle ad incazzarsi col figlio, quando questi le annunciò di voler uccidere la propria creazione letteraria. A certe madri non basta nemmeno avere il figlio dottore.

Bene. Non che abbia esaurito le brillanti considerazioni su “Sherlock”, ma devo scendere il mio Springer Spaniel Inglese nuovo di zecca.

Non ho nessuno Spaniel, ovviamente. Li trovo pure bruttiEd abito al piano terra. Ma, se avessi un barboncino, probabilmente lo chiamerei Grido.