Paterson: la poesia ci salverà?

Il film di Jim Jarmusch propone una delicata riflessione sulla dignità dell’esistenza e sull’importanza che attribuiamo alle esperienze di tutti i giorni, al di là delle apparenze più immediate. Presentato al Festival di Cannes 2016, in questi giorni nelle sale.

di Alberto Vigolungo Penetrare la banalità delle cose per scorgere un barlume, un segno della nostra presenza nella realtà, ricercare quel qualcosa in più che si cela dietro le cose e che in fondo non si spiega mai del tutto, soffermarsi sul filo sottile che separa vissuto ed elaborazione del vissuto, in un’epoca in cui sembra non ci si sappia più stupire. E’ forse questo il senso più profondo della poesia per Paterson, autista di autobus nell’omonima città del New Jersey: una realtà in cui tempo e spazio sembrano fare tutt’uno e che il protagonista porta scolpita nel suo stesso nome, quasi a rimarcare il senso di appartenenza di un individuo ad un luogo, l’unica certezza.

La vita di Paterson è immersa in una monotonia di azioni e di piccoli rituali quotidiani, dalla sveglia puntuale per raggiungere il deposito alla chiacchierata con il responsabile, lo sconsolato Donnie, dal turno in autobus alla passeggiata della sera con il cane, fino alla birra al bar di Doc, una sorta di piccolo santuario di cimeli americani, nel quale campeggiano foto e ritagli di giornale celebranti varie personalità cittadine da Costello a Ginsberg, poster del baseball e di vecchie stelle del soul: posti in cui, tra una parola e l’altra, ci si conosce un po’ tutti, perché si finisce sempre da quelle parti.

“Quando sei bambino impari che ci sono tre dimensioni: altezza, larghezza e profondità come una scatola da scarpe. Più tardi capisci che c’è una quarta dimensione: il tempo.”

E’ nelle pieghe di questo tempo inesorabile che Paterson coltiva la sua passione: al mattino, quando siede già in cabina prima di entrare in servizio, durante la pausa pranzo, nel tardo pomeriggio in scantinato, dove legge il suo preferito, William Carlos Williams. Scrive tutti i giorni, in un taccuino che custodisce gelosamente e che apre soltanto per la sua compagna, Laura, creativa eccentrica in cerca di consacrazione.

Questo senso del tempo è uno degli aspetti predominanti del film, reso sia da scelte di montaggio ben calibrate (indicazione del giorno, inquadrature ripetute, dissolvenze) che dalle capacità interpretative degli attori, nei momenti di intimità fra Paterson e la sua fidanzata, nei dialoghi costellati da lunghe pause: da segnalare, a tal proposito, le prove convincenti di Adam Driver e di Golshifteh Farahani, capaci di plasmare il tono di certe situazioni con un realismo degno delle storie di Carver.

 Si riconoscono poi in “Paterson” alcuni motivi ricorrenti nella letteratura e nel cinema d’Oltreoceano, il viaggio come occasione di apprendimento e formazione spirituale. La vena poetica di Paterson si manifesta nel suo essere testimone; una poesia che nasce dal contatto con le storie che prendono vita sul suo autobus ogni giorno, dalla comprensione che l’amore sia il sentimento più umano di tutti: l’amore che è soggetto della discussione di due amici che si confidano i loro fallimenti, temendo di aver perso un’occasione, l’amore che lega il protagonista a Laura e che costringe invece Everett alla sofferenza di un amante respinto.

“Paterson” ci ricorda come la vera poesia possa risiedere nell’ordinario e come sorprendentemente ci si possa sentire smarriti quando, per un fatto, per una circostanza, esso devia dal suo corso. Nella sua elegante immediatezza, “Paterson” si configura come un invito ad accettarci così come siamo, nonostante tutto, a considerarci nella nostra unicità. Un film che, riprendendo ciò che Valeria Parrella scrisse a proposito di un libro di Carver,protegge l’uomo comune dalla necessità di epico che egli stesso prova

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