I R.E.M. prima che diventassero i R.E.M.

Non tutti conoscono la musica dei R.E.M. prima che diventassero i R.E.M. di MTV e del cestone offerte cd del Carrefour, quelli di Michael Stipe truccato e senza capelli e quelli di Peter Buck con le camicie orribili. Vi facciamo un riassunto delle puntate precedenti ad “Out of time”. 

di Enrico Viarengo     25 anni fa usciva “Losing my Religion”. 25 anni fa usciva anche Out of Time, album in cui è contenuta la celebre canzone che anche il vostro vicino di casa, quello che vi dice “ascolto un po’ di tutto” ma tra le sue mura risuona solo Bruno Mars, conosce.

I R.E.M. hanno raggiunto e conquistato un pubblico eterogeneo più per i singoli memorabili – tanti oltre a “Losing my Religion” che per gli album interi. Album che spesso, appunto, suonano come perfette raccolte di singoli all’interno di una vasta discografia che grida al miracolo. Quale miracolo? Trovatela voi una band che in 30 anni di carriera (e 15 dischi) non abbia mai fatto un passo falso clamoroso, un flop commerciale, ricevuto un “big no” dalla critica. Questo ai R.E.M. non è mai successo ed è un merito che va riconosciuto: tra alti e bassi, gli alti hanno sempre svettato sopra la media di genere e i bassi sono sempre stati episodi meno rilevanti, ma pur sempre degni.

Torniamo ad Out of Time: il disco del 1991 lo si può leggere proprio in questo modo, come una raccolta di singoli, tra alti e bassi. Contiene  tentativi di crossover discutibili (“Radio Song”), gemme pop di semplicità disarmante, tanto naif quanto efficaci (“Shiny Happy People”), strumentali riempitivo (“endgame”), onesti richiami alla tradizione country americana (Near Wild Heaven, Texarcana), capolavori assoluti (Country Feedback) e altre canzoni semplicemente “molto R.E.M.”. Già, perchè il quartetto Berry-Buck-Mills-Stipe è in pista da più di 10 anni e ha già scritto una pagina importante del rock americano.

Non tutti conoscono la musica dei R.E.M. prima che diventassero i R.E.M. degli anni 90 e dei 2000, i R.E.M. di MTV e del cestone offerte cd del Carrefour, i R.E.M. di Michael Stipe truccato e senza capelli, i R.E.M. di Peter Buck con la faccia da stronzetto e le camicie orribili. Forse Peter Buck le camicie orribili le portava anche nel 1981, ma Stipe di certo aveva molti più capelli e parecchi anni in meno sulle spalle. La storia è poi semplicissima: quattro adolescenti che si ritrovano in un garage a suonare la musica che piace a loro, quel college-rock che stava funzionando nello Stato della Georgia. Anche se diversissimi dai R.E.M. dell’immaginario comune, quei giovani di provincia suonavano una musica incredibile.

rem1

Il primo singolo dei quattro di Athens è “Radio Free Europe”. La canzone viene mixata un’infinità di volte; una prima versione è quella di Mitch Easter (o già attivo con la sua band Let’s Active e prossimo a degne produzioni: The Connells, Game Theory, Ben Folds Five e Pavement), un mix grezzo, inumidito da riverberi che divennero il marchio di fabbrica dei primi lavori. “Radio Free Europe” non uscì in quella versione: il singolo fu registrato una seconda volta per essere incluso in Murmur. All’epoca nessuno aveva la piena comprensione di cosa Stipe cantasse e l’intera band era piuttosto gasata da testi criptici che forse nascondevano un significato preciso, forse no >> https://www.youtube.com/watch?v=HksAWcA729A

A fronte del successo di “Radio Free Europe”, la band è pronta per la prima manciata di pezzi. Nel 1982 esce Chronic Town, un EP di 5 brani. Titoli di dubbia interpretazione e un gargoyle in copertina. L’EP vende 20.000 copie, numeri che spaventano se messi in relazione all’epoca digitale in cui viviamo. Ma i quattro restano dei ragazzotti scapestrati che vivono per lo più per strada e senza un soldo, fanno concerti in chiese sconsacrate e si barcamenano con i primi contratti. Mike Mills è il vero musicista della band, Bill Berry, che se la cava alla grande alla batteria, molla gli altri suoi progetti e punta tutto sulla baracca R.E.M., spingendo l’acceleratore su live e contatti con un’attitudine da vero manager. Peter Buck, non di certo un virtuoso dello strumento, ha un suo stile particolare e funzionale: arpeggi veloci e inconfondibili e pochi fronzoli per una chitarra ritmica che stupisce anche i produttori. Il vero protagonista del sound degli esordi è proprio lui, Rickenbacker nera e mossette sul palco >> https://www.youtube.com/watch?v=zJB628tWEHk

Murmur è l’album della svolta, quello che li fa entrare nelle classifiche. I R.E.M. iniziano ad essere considerati la band più importante di Athens. Aprono concerti di band come i Police e i giornalisti di Rolling Stone nominano Murmur “Album dell’anno”, davanti a Thriller di Michael Jackson. Si inizia a parlare di folk-rock e non solo più di una garage band debitrice dell’ondata new-wave; il sound è ormai chiaro, con ogni componente al posto giusto e una produzione curata. Michael Stipe sperimenta cantando negli angoli bui dello studio o nei sottoscala, così il Mitch Easter ai pomelli non deve più neanche aggiungere riverberi in fase di missaggio. All’interno dell’album spicca la struggente ballata pianistica “Perfect Circle”, una di quelle canzoni che ancora oggi fa venire la pelle d’oca >> https://www.youtube.com/watch?v=EXxprhjaot4

bn-nn064_religi_12s_20160412122942

Reckoning è quel disco che secondo i fan più si avvicina alla perfezione del periodo I.R.S. Records: è molto più vario del precedente, dentro ci sono delle grandi hit – “So. Central Rain”, “Pretty Persuasion”, “Don’t go Back (to Rockville)” e tanto jangle pop in stile The Byrds. Merito sicuramente della produzione di Don Dixon e dell’ormai affiatato Mitch Easter che sperimentano ampiamente utilizzando il metodo della registrazione binaurale e donano al prodotto quell’aura magica in grado di celare i difetti di una band non ancora impeccabile a livello tecnico.
A proposito dei già citati Pavement: la band di Stephen Malkmus tributò l’intero Reconing in un pezzo minore, “Unseen Power of the Picket Fence”, un elogio sincero nonostante versi ironici come “Time After Time was my least favourite song” >> https://www.youtube.com/watch?v=fQot1WBA7ng

Iniziano i guai: i R.E.M. hanno esaurito la benzina e perso la coppia di produttori fedeli, troppo impegnati nei loro progetti musicali. Nel 1985 vengono chiamati a Londra dal produttore Joe Boyd, americano prestato al folk inglese di Fairport Convention, Richard Thompson e Nick Drake.
I quattro entrano negli studi londinesi senza avere la minima idea di cosa suonare, con qualche canzone scritta di fretta e in un clima litigioso e poco divertente. Fables of the Reconstruction (o Reconstruction of the Fables?) esce lo stesso. Un album minore, per certi versi sottovalutato, troppo frammentario e scuro e con dei singoli “stanchi” (“Wendel Gee”, non una delle vette di scrittura della band). Certo, ci sono canzoni come “Driver 8” destinate a diventare grandi classici, ma è anche il disco con un’apertura bizzarra e inquietante, “Feeling Gravity’s Pull”, arrangiata con una sezione d’archi e una delle chitarre più cupe che Buck abbia mai sfornato >> https://www.youtube.com/watch?v=NodXnjUIZ0U

r-e-m-_-_r-e-m-_photo_credit__sandra-lee_phipps1

Il terzo lavoro in studio della band non ha una ricezione così negativa come si poteva immaginare in un primo momento. La band è anche riuscita a osare di più, portando la scrittura a un livello superiore. Innegabilmente però, Fables of the Reconstruction non piace molto neanche agli stessi R.E.M.. Gli episodi più sereni di questo periodo grigio sono forse quelli usciti successivamente all’interno di Dead Letter Office (1987), raccolta di rarità e b-sides. Tra le tante, la cover di “Crazy” dei Pylon, band di Athens meno nota, ma di gusto affine. Un gran pezzo pop con il quale la band si sente a proprio agio e torna alle sonorità degli esordi >> https://www.youtube.com/watch?v=-r19oHoJ2NY

Siamo nel 1986, si torna negli Stati Uniti e si cambia produttore: tocca a Don Gehman, già al lavoro con John Mellencamp. La volontà è quella di dare una risposta immediata e più ottimista al disco precedente. Lifes Rich Pageant è in effetti una ventata d’aria fresca e in pochi mesi vende più di 500.000 copie: piglio più rock e diretto (“Begin the Begin” , “Hyena” e “These Days” su tutte), un singolo cantabile come “Fall on me”, tanti cori di Mills e soprattutto uno Stipe più convinto e convincente. Basti ascoltare la versione demo di “Cuyahoga” per sentire la voce del leader indiscusso più calda e matura, la stessa voce che tutti ricordano >> https://www.youtube.com/watch?v=-wi947XdwkE

Spesso ci si dimentica di Mike Mills. Il biondino occhialuto, oltre a essere uno dei bassisti più generosi del mondo del rock, è anche una fondamentale e inconfondibile voce di supporto a Stipe e diverrà presto anche una penna da non sottovalutare (“Nightswimming” e “What’s the Frequency Kenneth?”, per citarne un paio, sono principalmente accreditate a lui).
Nel 1986, tra i pezzi registrati e scartati durante le sessioni di Lifes Rich Pageant, c’è anche una divertente “Superman”, cantata proprio da lui >> https://www.youtube.com/watch?v=IkM1pTmlhYI

r-e-m

Al quinto lavoro in studio i R.E.M. trovano una nuova casa nella produzione di Scott Litt, che li accompagnerà per un lungo periodo. Michael Stipe, allora 27enne con un bagaglio musicale ormai prossimo alle biografie ufficiali, è in stato di grazia. Se un tempo era il jingle-jangle di Peter Buck a determinare la cifra stilistica della band, ora è la voce a farla da padrone: l’urlo ‘Fire’ in “The one I love” è l’emblema del carisma ormai certificato del cantante, che riesce ad azzeccare un singolo con tante parole e un ritornello immortale: “It’s the End of the World as We know it (and I feel fine)”. Ma in Document c’è anche altro, dalla critica politica di “Exhuming McCarthy” alla ballata definitiva della band, “King of Birds”, passando per una cover dei Wire primo periodo. Document è disco di platino con un milione di copie vendute, un disco compatto, duro, passionale. La produzione è al passo coi tempi, se non addirittura avanti e Peter Buck ha ingrassato il suo strumento con feedback e distorsioni; se Monster (1994) sarà considerato la risposta dei R.E.M. al grunge, Document ne è in un certo qual modo il precursore >> https://www.youtube.com/watch?v=559eWB93jW4

Nel 1988 la band è ormai sotto i riflettori e la I.R.S. Records non riesce a trattenerla. Il passaggio a major è scontato, con tutti le annesse e scontate critiche dei fan duri e puri. La Warner Bros., comunque, non mette paletti a livello di produzione; la band è libera di esprimersi e tuttavia torna negli studi di Scott Litt con le idee non troppo chiare. La lavorazione di Green non è semplice: la band parte da “Orange Crush” che prosegue sulle coordinate rock tracciate da Document e arriva all’estremo opposto con la dolcezza acustica di “You are the Everything”. In mezzo c’è un po’ di tutto: il pop laccato da sigla di cartone animato, “Stand”, la nerissima “I remember California” e persino una traccia conclusiva senza titolo con Peter Buck alla batteria. Un album strano, insomma, con grandi canzoni – come sempre – ma che nella sua interezza tradisce un vago senso di incompiutezza e un istrionismo forse eccessivo di Stipe che non riesce più a contenere il proprio ego >> https://www.youtube.com/watch?v=_mSmOcmk7uQ

Bisognerà aspettare 3 lunghi anni per arrivare ad Out of Time che, paradossalmente, viene considerato da molti l’album più debole della carriera dei R.E.M., un album che sancisce una ripartenza più morbida, necessaria per fare un po’ di ordine mentale prima di arrivare al vero capolavoro: Automatic for the People.

rem