Le tre stelle di Club to Club 2016 illuminano tutta Torino

Tra complesse architetture sonore e groove contagiosi, graditi ritorni e inaspettate sorprese, l’edizione 2016 di Club To Club accende i riflettori sulla città con una kermesse sempre più internazionale e “illuminante”.

Una maratona lunga e ricchissima di sostanza, quella di Club To Club. Che vi racconteremo in due parti scrivendone a più mani e sviscerandone il più possibile dettagli e significati. Iniziamo con la prima carrellata, a cura di Stefano D. Ottavio. Mentre leggete potete godervi la nostra playlist Spotify con il meglio di questa edizione: la trovate a fondo articolo.

Powell era stato uno degli eroi della scorsa edizione e anche quest’anno si conferma un producer imprevedibile e sui generis. Quella che propone sul Main Stage è una techno anarchica, sperimentale ed abrasiva, molto vicina ai deliri del collega francese Mr. Oizo. Il punto di riferimento del set è l’ultimo album Sport, un lavoro completamente fuori dagli schermi, uscito nel corso del 2016. Il pubblico cerca invano di appoggiarsi su una base ballabile, ma ciò che più diverte sono proprio i repentini cambi di tempo e le disparità che spiazzano tutti continuamente. Purtroppo non si può godere per molto tempo delle sonorità di Powell, perchè il set s’interrompe dopo neanche un’oretta, forse per lo sforamento delle tempistiche causato dalla “coda” degli Swans.
Senza indugi arriva sul palco uno degli act più attesi della serata, ovvero Chet Facker, che ora si presenta con il suo nome di battesimo, Nick Murphy. Cambia, insieme al moniker, anche la proposta sonora: non canta e non ha una backing band insieme a lui (show al quale ci ha abituato negli ultimi anni) ma si lancia in un dj set dritto per dritto in cui si diverte a citare, oltre se stesso, anche Radiohead (campiona Everything is the right place: ricordate l’anno scorso?) e Dj Shadow. Il set tuttavia suona abbastanza anonimo e fin troppo didascalico: oltre l’oggettivo coinvolgimento danzereccio che esercita sul pubblico, non si trovano la personalità e le caratteristiche peculiari che noi tutti abbiamo apprezzato nel disco “Built on glass”. L’impressione è che potesse esserci un po’ chiunque a suonare dietro la consolle oltre il barbuto australiano.
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On stage: Dark Polo Gang w/ One Circle
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Si fa l’una di notte e ha inizio il corposo set del maestro Laurent Garnier, che con la carriera che ha alle spalle non ha ovviamente nulla da dimostrare alle orecchie del pubblico presente e della critica. Affrontare 3 ore di set non facile (né per lui, né per noi) ma il francese ne esce con la classe e il mestiere del veterano.
Il suono del futuro, come ci insegna la storia del Club to Club, deve essere cercato in fondo al corridoio principale, nella Saletta Gialla. Qui troviamo l’interessante suono del giovane Gaika. Il suo grime ha trovato residenza in casa Warp, e guardando questo show cupo e coinvolgente si potrebbe azzardare che in futuro spetterà a lui il posto ora occupato da gente come Drake, Future e Desiigner. Si consiglia l’ascolto del suo lavoro SECURITY per essere subito catapultati in un basement umido ed esclusivo di Brixton. Il pubblico che in un modo o nell’altro si ritrova nella Sala Gialla, dopo Gaika ha modo di essere spettatore di una delle sorprese più (o meno, dipende) gradite della serata: durante il set degli One Circle, ovvero l’unione delle forze italiane Vaghe Stelle/ Lorenzo Senni/ A:RA, salgono sul palco in veste di guest star i pischelli della Dark Polo Gang. Poco ci azzeccano le critiche di chi dopo l’evento ha urlato allo scandalo per la loro presenza in un festival simile: si parla di futuro e di nuove direzioni del pop, quindi non può essere ignorata in questo discorso una delle realtà più controverse e – volenti o nolenti – destabilizzanti degli ultimi tempi. Nonostante sia spesso odiata e insultata da un’inevitabile fanfara di haters, la Dark Polo Gang sta collezionando milioni di visualizzazioni su Youtube e, soprattutto, dando notorietà ad un producer talentuoso come Sick Luke, autore di molte delle loro basi. Per toccare con mano la situazione che stanno creando questi ragazzi romani basta assistere a ciò che succede qui al Club to Club durante la loro ospitata, ovvero delirio collettivo e interruzione dello show dopo appena 3 brani per il malore di uno spettatore (fortunatamente nulla di grave). Escono di scena e continua l’onesto lavoro electro degli One Circle, che però inevitabilmente passano in secondo piano dopo tutto l’hype creatosi.

«La bellezza di un festival è direttamente proporzionale al desiderio di uno spettatore di avere il dono dell’ubiquità»

Non sono passate molte ore dalla fine del set di Andy Stott all’alba di sabato, e già ci troviamo a correre di nuovo dentro il Lingotto per il secondo Main Event di quest’edizione di Club to Club. Ci si allontana qui dalla sperimentazione estrema e introspezione della serata precedente, e i grandi artisti in cartellone promettono una serata più movimentata e meno seriosa.
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On stage: Ghali
Dalle terre nordafricane evocate dal mix di italiano e arabo nelle liriche di Ghali, in pochi minuti ci spostiamo di un po’ di kilometri ad est per giungere in India, grazie all’esibizione di Shye Ben Tsur e i suoi Rajasthan Express, che insieme al secondo frontman dei Radiohead, il chitarrista Johnny Greenwood, danno vita al progetto Junun. L’esibizione (per la prima volta in Italia) è la prova inconfutabile della scomparsa del sottotitolo “Festival di musica elettronica” da Club to Club, e del tentativo degli organizzatori di aprirsi a mondi sonori sempre meno prevedibili. Infatti i suoni orientali e mistici qui proposti non sono contaminati da alcuna componente elettronica o drum machine del caso, e per ballare ci si poggia solo sul ritmo catartico delle tablas dei percussionisti seduti sul palco. Greenwood sta nelle retrovie alternando basso e chitarra, e il suo contributo spesso pare superfluo o addirittura nascosto sotto strati di fiati e cori. A conti fatti, al di là dell’hype, è lo spettacolo forse meno impattante della serata, ma proprio per la sua unicità nel contesto in cui si presenta, “Junun” coinvolge ed incuriosisce il pubblico, che si presta con un sorriso al gioco della world music.
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La bellezza di un festival è direttamente proporzionale al desiderio di uno spettatore di avere il dono dell’ubiquità, e scegliere tra Dj Shadow e Daphni aka Caribou è stato veramente arduo. Dal canto nostro, optiamo per il dj set dello storico produttore hip hop nella sala principale. Eccezione in due giorni di main event del tutto privi di visuals, Dj Shadow arricchisce la sua esibizione con fantastici video e grafiche che vengono proiettati su tre imponenti schermi e, da un certo punto in avanti, anche su un velo trasparente che si frappone fra lui e il pubblico, dando vita così ad uno show che è anche una gioia per gli occhi. L’occasione è il ventennale del fotonico Endtroducing, inserito nel Guinness World Records per essere “il primissimo album interamente prodotto a partire da samples”: estrae abbondantemente da questo lavoro ma mettendo ai brani un vestito nuovo, ovvero i remix dell’album fatti da vari colleghi come Clams Casino, e così riesce ad unire passato, presente e futuro senza scadere nel revival dei bei tempi che furono. Essere storia e freschezza sonora, essere un classico e ma contemporaneamente stare sul pezzo mostrandosi moderno, è un mix che si può percepire in micidiali sequenze come “Nobody Speak” (dall’ultimo lavoro del 2016) unita alla storica “Midnight in a perfect world” nella versione di Hudson Mohawke. Visuals che mandano in trip, scratch che non hanno nulla da invidiare a virtuosi assoli di chitarra e uno stile infinito (anche solo nel modo – umile, pacato, amichevole – di rivolgersi al pubblico) rendono probabilmente lo show di Dj Shadow il migliore della rassegna di quest’anno.
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Cosa manca ad una serata in cui dalla trap in italiano si è passati a suoni multietnici fino ai tempi spezzati dell’hip hop? Nient’altro che dell’electro dura e pura senza compromessi; e dunque non si poteva chiedere niente di meglio di Jon Hopkins. Il produttore inglese passa sopra le teste di tutti con la sua techno ipnotica e ricca di groove, e il pubblico non può che esultare ad ogni comparsa di un’imperiosa cassa dritta (elemento saggiamente centellinato dalle parti di Club to Club). I punti di riferimento sono quindi i suoi lavori meno ambientali e leggeri, in favore della fisicità dei pezzoni contenuti, per esempio, nel lavoro Immunity del 2013. Difficile uscire indenni, e insoddisfatti.
A calare il sipario sulla due giorni del Lingotto, il dj set più allegro e spensierato del Club to Club (anche pensando che 24 ore prima ci si trovava nel buio pesto ad avere gli incubi con gli Autechre). La festa è offerta da Motor City Drum Ensemble, giovane producer tedesco che nel suo set mischia con gusto funk, soul, musica brasiliana ed acid house. Chi se lo aspettava di trovarsi a ballare alle 4 passate su un azzeccato rifacimento electro di Get up offa that thing del padrino James Brown, senza indignarsi e gridare al sacrilegio? Un’ultima esibizione gustosa quanto inaspettata, che ci fa allontanare dal Lingotto con il sorriso e un dj in più sulla lista dei favoriti. Stefano D. Ottavio
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A breve out anche i nostri approfondimenti sulle performance di Autechre, Swans, Ghali e qualche altra sorpresa: #IAMC2C
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Premi play e rivivi l’atmosfera di questa incredibile edizione #IAMC2C