Io, Daniel Blake: noi, Ken Loach

Anche questa volta Ken Loach non si è smentito, dedicandosi anima e corpo ad uno script -firmato da Paul Laverty – incentrato sulla condizioni di vita dei ceti meno abbienti.

Matteo Billia  –  Io, Daniel Blake, film vincitore della Palma d’oro al festival di Cannes, è la tipica tranche de vie: il sessantenne Daniel Blake (interpretato magistralmente da Dave Johns), ex carpentiere, impossibilitato al lavoro da un recente infarto, intraprende una lotta senza apparente soluzione contro lo stato, che gli rifiuta il riconoscimento dell’invalidità con il relativo sussidio. Il profilo da lavoratore medio di Daniel Blake è preso in considerazione insieme a quello di Daisy, giovane ragazza madre abbandonata a se stessa, rappresentante di un fenomeno che in Europa è largamente diffuso (in Inghilterra gli aiuti per le ragazze madri senza un lavoro sono stati drasticamente limitati, negli ultimi anni, per arginare il problema). Con lei stabilirà una profonda solidarietà nella lotta per il riconoscimento di una dignità che lo stato non le vuole riconoscere. Come si può notare anche in altre opere di Loach, il titolo stesso del film rappresenta una sintesi del suo messaggio, quasi a voler indicare, con il nome del protagonista espresso per intero, una dignità che va riconosciuta a ciascun individuo.

La sceneggiatura di Paul Laverty è viva, mai noiosa e scontata, e pur esponendo avvenimenti della vita di tutti i giorni, anzi, forse proprio per questo, riesce a trattare questo materiale come magma incandescente, riempiendo di significati inattesi, ma cruciali, anche la più banale delle conversazioni. In molte scene si ride, contagiati dall’ironia di Daniel, ma in molte altre si riflette con l’amaro in bocca. Basti pensare che uno dei momenti più commuoventi di questo film, si svolge non a caso in un banco alimentare.

2016_42_ken_loach

Le legittime preoccupazioni di Daniel assumono in fretta la portata di un’autentica tragedia contemporanea: il passaggio all’anzianità e il conseguente cambiamento di ruolo in una società che per interesse non riconosce le difficoltà di chi non è più in grado di produrre, e si accanisce nei confronti di chi, a causa dell’età, non può comprendere appieno l’avvento delle nuove tecnologie.

Loach dimostra ancora una volta la sua abilità nell’analizzare con sguardo lucido le problematiche della working class europea (la sua carriera del resto sembrava indirizzata al documentario d’autore). La macchina da presa è cruda, anti-estetizzante, mirata a presentare le situazioni con l’obiettività di un osservatore imparziale. Nonostante questo, emerge una critica al sistema sociale (per alcuni anacronistica, ma condivisibile) che si serve delle tragedie di uomini e donne invisibili, per raggiungere la sua massima evidenza nella scena finale, in cui sentimentalismo e affettività sono messi in secondo piano (secondo chi scrive) a favore di quello che Marx ed Engels avrebbero definito un vero e proprio materialismo storico; una rivolta degli oppressi contro gli oppressori, dei lavoratori medi contro una burocrazia asettica e interessata solo al mantenimento di una produttività volta ad annientare ogni rimasuglio di dignità umana.